Da Senigallia a Locarno, oggi a Vienna: l’elogio della follia di Mario Giacomelli
Fotografo realista espose nel 1994 proprio in Ticino per illustrare i suoi primi quarant'anni di attività, marcando per sempre il territorio con uno splendido catalogo di 114 immagini
Si è aperta il 26 giugno al WestLicht Museum for Photography di Vienna, dove si protrarrà fino al 9 agosto, la mostra fotografica “Contro il tempo”, dedicata ad uno dei più grandi maestri del bianco e nero del Novecento: Mario Giacomelli. Lo spunto per parlare di questo artista marchigiano, ancora attualissimo a quindici anni dalla scomparsa, viene dal Locarnese, dove nel 1994 egli espose per illustrare i suoi primi quarant’anni di fotografia, marcando per sempre il territorio con uno splendido catalogo di 114 immagini.
Il modo più bello e diretto di introdurre questo autore è secondo me quello di partire da una conversazione: quella che Giacomelli ebbe nel luglio 1994 a Senigallia con Domenico Lucchini, allora Direttore del festival internazionale del film per ragazzi di Bellinzona. Giacomelli è conosciuto come un fotografo realista, ma il suo realismo è molto particolare perché si tratta di un reale che attraverso la fantasia dell’artista viene traslato sul piano dell’immaginazione. Disse quel giorno il maestro: “A volte, guardando l’immagine del fotografo e sentendo quello che dice si potrebbe pensare che questi sia pazzo. Si potrebbe benissimo parlare di pazzia, che poi è una cosa bella. Io parlo e agisco come un pazzo, ma penso di non esserlo”. In effetti il reale, nelle splendide immagini del fotografo e poeta marchigiano, è destrutturato sia nella composizione che nel colore.
Giusto ricordare che la fotografia di Giacomelli è tutta chimica, fatta cioè con il ‘molto sapiente’ utilizzo, tipico del XX secolo, del tank per lo sviluppo della pellicola e delle bacinelle per la stampa. Non esistevano allora molti altri artifici per manipolare artisticamente il reale, a parte forse una tecnica oggi impraticabile nell’era digitale: la doppia esposizione del film, ampiamente utilizzata da Giacomelli ad esempio nella buona serie di scatti intitolata “Caroline Branson”. E’ qui che il fotografo diventa artista, e poi, nella conversazione raccolta quell’anno dalla CiA Edizioni di Chiasso, diventa anche filosofo e maestro. Lui, orfano di padre che aveva studiato poco e niente, risponde quasi per aforismi al suo colto interlocutore; frasi che si scolpiscono nella mente del lettore ed ammiratore della sua opera. Ne cito solo alcune: “La fotografia non si spiega, si legge. Con i neri e i bianchi non ho scritto solo quello che tu vedi, ma anche quello che senti. Tu puoi benissimo sentire un’altra cosa, ma io ti do un suggerimento.”
Oppure ancora: “La fotografia d’atronde è lo specchio della tua anima: ti vedi come in uno specchio, ma ogni volta in modo diverso.”
Artisticamente Giacomelli fu figlio, anche se presto diventò autonomo, del fotografo foggiano Giuseppe Cavalli, fondatore nel 1947 a Milano del celebre gruppo fotografico “La Bussola”. Il primo importante riconoscimento artistico per la sua opera venne invece nel 1955 dal più acerrimo rivale artistico di Cavalli, il novarese Paolo Monti, fondatore sempre nel ’47 del gruppo veneto “La Gondola”.
In Italia il più importante riferimento per questo autore è certamente l’Archivio che porta il suo nome, a Sassoferrato, non lontano da Senigallia , dove il nostro è nato nel 1925 ed ha vissuto fino alla morte, con pochi e svogliati spostamenti.
L’Archvio Mario Giacomelli ha un suo portale dal quale è accessibile tutta la produzione dell’artista, catalogata e ragionata seguendo i criteri originariamente seguiti dall’autore.
Della produzione dell’anconetano personalmente ho trovato carica di significato la serie di scatti, spesso drammatici, intitolata “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”, prodotta nell’ospizio per anziani di Senigallia tra il ’55 ed il ’56. Più nota al grande pubblico è invece quella famosissima dei “pretini” scattata in seminario, perché pubblicata dal settimanale L’Espresso: “Io non ho mani che mi accarezzino il viso”. Molto meno nota quella che lo ha reso celebre, la serie “Scanno”, acquistata nel 1963 da John Szarkowski per il MOMA di New York, a nemmeno dieci anni dalla prima fotografia scattata dal tipografo di Senigallia.
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