La legge sull’affido condiviso compie dieci anni
Il commento del pediatra angerese Vittorio Vezzetti che ha portato le sue ricerche all'attenzione delle Nazioni Unite, del Consiglio d'Europa e del Parlamento Europeo
L’8 febbraio 2006 veniva approvata la legge sull’affido condiviso. Sulla carta avrebbe dovuto garantire ad ogni minore figlio di genitori non conviventi (circa 1.500.000 in Italia) il diritto ad un rapporto equilibrato e continuativo con ognuno dei genitori. In pratica viene da molti definita (a partire dalla sua relatrice, la Sen. Baio) una legge tradita e in Parlamento giacciono una dozzina di proposte di legge per cambiare le regole del gioco. Ne parliamo con il pediatra angerese Vittorio Vezzetti, esperto internazionale che ha portato le sue ricerche all’attenzione delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo.
«In effetti – dice Vezzetti -, la legge non ha mutato quasi niente ma non dobbiamo stupirci: leggi analoghe, tanto generiche, erano già state promulgate (e poi cambiate perchè fallite) in Svezia nel 1989, in Francia nel 1993, in Belgio nel 1997 e in Olanda nel 1998. La differenza è che lì hanno avuto il coraggio di prenderne atto e, almeno parzialmente, di cambiarle».
L’Italia come si colloca nel panorama europeo? «L’Italia giace in fondo alla classifica europea della bigenitorialità insieme a Grecia, Portogallo, Paesi del blocco ex comunista. Le decisioni dei Tribunali confinano uno dei genitori (in oltre il 90% dei casi il padre) a un ruolo marginale: fino ai tre anni per un papà separato è quasi impossibile ottenere un pernottamento del figlio e anche dopo si sale lentamente e gradualmente fino a una media di 4-6 al mese ). Non più del 5% dei minori italiani frequenta per almeno un terzo del tempo i due genitori. In Svezia è il 70% e in Belgio e Danimarca il 50%. In Catalogna ormai il 40%».
Le conseguenze secondo Vezzetti sono molteplici: «Quello che internazionalmente si definisce father disengagement che porta in Italia un buon 30% dei minori a perdere contatto col padre dopo alcuni anni dalla separazione. La perdita del genitore comporta poi uno spettro di conseguenze sia sociali (povertà, minori performance scolastiche, tabagismo, attività sessuale precoce), sia psicologiche (depressione, ansia), sia mediche (danni sull’assetto ormonale e bioumorale, aumento di malattie quali anche tumori e malattie infiammatorie croniche) che possono verificarsi anche dopo 20-30 anni e che quindi sfuggono alle rilevazioni ufficiali».
«A questa situazione si può rimediare accettando di muoversi finalmente in favore di un interesse del minore che non sia strumentale alle proprie percezioni ma fondato su due fattori oggettivi: le esperienze positive dei Paesi che hanno avuto il coraggio di cambiare approccio (in Danimarca ormai perde contatto con un genitore dopo il divorzio solo il 12% dei minori e in Svezia il 13%) e accettare nelle leggi e nella giurisprudenza le acquisizioni scientifiche. Il nocciolo del problema è infatti lo scollamento tra la magistratura italiana, schierata con fior di sentenze, anche di Cassazione, contro una condivisione reale ed equivalente dei tempi (che esporrebbe, secondo i giudici, i minori a destabilizzanti peregrinazioni tra due abitazioni e a maggiori esposizioni al conflitto familiare) e il corpus dei 75 studi accreditati internazionalmente dal 1977 ad oggi, validati dal Consiglio d’Europa e dal gruppo di studio dell’International Council on Shared Parenting, che ormai hanno dimostrato inequivocabilmente con ricerche condotte su centinaia di migliaia di minori che le famiglie separate in cui i figli frequentano ognuno dei genitori per almeno un terzo e fino a metà del tempo rappresentano la struttura post separativa migliore, con parametri di benessere molto vicini a quelli delle famiglie unite. Eccezioni sono i casi di abuso, trascuratezza, violenza familiare. Purtroppo nei tribunali italiani l’elemento scientifico non ha mai avuto vita facile e si continua a giudicare in un modo che, numeri alla mano, ci relega in fondo alla classifica europea del benessere dei figli di separati».
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