Usag, il tramonto della “Ferrari” degli utensili
Parlano i lavoratori entrati in sciopero dopo l'annuncio dei licenziamenti. È la quarta ristrutturazione in pochi anni, il grosso della produzione vola verso India e Cina
«La mia fabbrica è bellissima» dice Daniele. Il corteo dei lavoratori della Usag per le vie di Gemonio è appena terminato e il tono della sua voce è pieno di nostalgia. È il tono di chi immagina una fine che non è ancora arrivata ma è lì che aspetta sulla soglia del cancello di via Solferino che varca ogni mattina per andare a lavorare. La sua fabbrica, vecchia di 87 anni, sta per essere sacrificata sull’altare di una competitività giocata al ribasso, nonostante la proprietà americana abbia fatto scrivere all’entrata «Apriamo le porte all’eccellenza».
Alla Usag di Gemonio c’è ancora una forgiatura a caldo, l’unica in Europa, lì entra il metallo grezzo e da lì escono le chiavi lucide e dall’inconfondibile marchio rosso pronte per essere usate da tutti i meccanici. E proprio loro sono i primi ad uscire dalle autofficine quando vedono sfilare lungo la strada provinciale il corteo dei lavoratori. Salutano senza sorridere ben sapendo di essere in qualche modo accomunati in questo lento cammino di decadenza.
Il lavoro di svuotamento della Usag non è cosa di oggi, prima l’hanno iniziato i cugini francesi della Facom, che però «avevano più cuore», poi sono arrivati gli americani della mutinazionale Stanley Black&Decker a completarlo. Quattro ristrutturazioni nel giro di tre generazioni hanno ridotto la forza lavoro da 600 persone a poco più di duecento, ripartiti su due stabilimenti. Nel cuore produttivo di Gemonio dopo l’ultimo taglio ne rimarranno solo un centinaio. «Se tutto va bene – dice Marco – ci metteranno ad assemblare pezzi fatti da altri, mentre qui si faceva tutto noi. E poi ci diranno che i costi della struttura sono troppo alti e a quel punto si chiuderà».
I lavoratori della Usag hanno già scelto il finale di questo romanzo industriale, iniziato dalla famiglia Amos e guardando i numeri è difficile immaginarne un altro: nella fabbrica di Gemonio si lavoravano dodici milioni di pezzi, ovvero l’80 per cento del catalogo dell’azienda, oggi a malapena due milioni. Eppure i dipendenti fino a prima dell’annuncio degli 80 licenziamenti hanno lavorato tantissimo, appena quattro giorni di cassa integrazione in un anno e tanti progetti, solo parole però, perché mentre qualcuno veniva chiamato dai dirigenti per discutere del nuovo piano per il controllo della qualità, qualcun altro pensava già a come trasferire il know-how di Gemonio verso Cina, India, Taiwan e Vietnam dove verrà dislocata gran parte della produzione. «Noi già producevamo dei pezzi assemblati – spiega Luigi -. Ad esempio, nelle chiavi a cricchetto l’asta era nostra e tutto il resto veniva dall’India, ma erano pezzi approssimativi che poi noi dovevamo rilavorare per farli andare bene e siccome siamo bravi ci riuscivamo». Sotto il tappetino dei cricchetti Usag c’era tanta polvere indiana e qualcuno è già là ad insegnare come si fabbricano.
A Gemonio rimarranno tre linee di prodotti: le chiavi dinamometriche, le chiavi a «T», che è un prodotto esclusivamente italiano, e quelle di precisione. Su quelle tre linee, dicono i rappresentanti sindacali, gli americani hanno promesso che faranno investimenti.
«Nè gli indiani e nemmeno i cinesi sono capaci di fare utensili con la nostra qualità. La Ferrari dell’utensile siamo noi» dice con orgoglio Giuseppe. Dopo aver tracorso 34 anni in azienda a fare il pulitore, nell’ultima ristrutturazione era stato inserito nella lista dei licenziati ma alla fine era riuscito a scamparla. Lui dice di non sentirsi un sopravvissuto e di aver solo un sogno nella vita: «Ricomprare la Usag».
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