80 anni fa la vergogna delle leggi razziali
Vittorio Emanuele III firmò il 5 settembre del 1938 le leggi che decretarono l’espulsione dalle scuole italiane di studenti e professori. Il primo atto normativo verso il baratro
Una passeggiata sulla battigia per stimolare l’appetito, e a Vittorio Emanuele III, esattamente 80 anni fa, prima di sedersi a tavola nella tenuta di San Rossore in provincia di Pisa vennero portate delle carte da firmare: erano le prime leggi razziali.
Lo ricorda Fabio Demi in un documentato articolo pubblicato su Il Tirreno di domenica scorsa, 2 settembre.
Il regio decreto del 5 settembre 1938, n. 1390 – Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola appiattì l’Italia a quelle “dottrine d’oltre Alpe” che solo qualche anno prima, nel 1934 il Duce definiva come “sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto”.
Dottrine che non solo l’Italia adottò, ma che vennero ampiamente caldeggiate da fior di riviste, e che entrarono nel tessuto culturale del Paese, palesandosi persino con vetrine dei negozi che presto si adornarono della scritta: “Questo negozio è ariano”.
Non c’è bisogno di leggerlo tutto, il regio decreto, composto da 7 articoli, basta fermarsi al numero due: “Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica”.
A questa norma ne seguirono altre che impedirono ai cittadini italiani di fede (razza) ebraica di partecipare a quel che rimaneva della vita del Paese. Persino i cognomi vennero toccati dalle ultime disposizioni, emanate nel luglio del 1939.
Quindi: via dalle scuole e dalle università, via dai pubblici impieghi.
E, qualche anno dopo, via dall’Italia, attraverso il forno crematorio di San Sabba, a Trieste, o sui vagoni piombati verso est, o verso nord, in Germania, anche qui a morire di stenti o subito in camera a gas.
Una vergogna indelebile (nella foto sopra Benito Mussolini con Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro di Savoia), resa ancora più nera dal fatto che questo trattamento venne imposto da un esercito di un Paese invasore – la Germania di Hitler – a cui Benito Mussolini consegnò l’Italia, parte della quale venne annessa al Reich.
Certo, non furono le leggi razziali direttamente a far deportare gli italiani di fede ebraica, ma esse concorsero a far regnare un clima di normale segregazione e per molti di sorda accettazione di ciò che avvenne ai danni di vicini di casa e compagni di banco, colleghi e conoscenti che dopo l’attuazione dell’Operazione Achse – l’occupazione pianificata dell’Italia da parte della truppe tedesche – portarono anche al rastrellamento e alla deportazione degli ebrei italiani.
Ci fu il 16 ottobre 1943, con l’eclatante rastrellamento del ghetto di Roma.
Ma avvennero centinaia di episodi minori.
Così morirono in migliaia. Anche anziani combattenti ed eroi di Vittorio Veneto. Addirittura ardenti sostenitori del fascismo da Sansepolcristi prima, a festosi partecipanti alla marcia su Roma poi.
Sopratutto a pagare furono semplici cittadini, donne, bambini.
Tra questi una testimonianza che ci deve toccare da vicino perché vicina alla provincia di Varese è quella di Arianna Szörényi – una delle ultime rimaste – originaria di Fiume e oggi milanese, intervistata a Cunardo, dove si reca di tanto in tanto per motivi personali.
Arianna Szörényi, venne deportata all’età di 11 anni ad Auschwitz e la sua storia è stata raccolta qualche anno fa da Carlo Banfi, Davide Di Giuseppe ed Emilio Rossi, per l’Anpi di Luino.
Questa donna che ancora oggi ha paura dei latrati dei cani lupo e del parlare tedesco ha scritto anche un libro, “Una bambina ad Auschwitz”, testimonianza toccante e dolorosa di quei giorni.
«Chi alzerà la propria voce indignata, offesa, quando tra non molto non ci sarà più alcun testimone?» ci dice. Solo lei e il fratello Dino sono riusciti a sopravvivere in quell’inferno. Il resto della famiglia, sette persone, sterminato. Arianna Szörényi Giovanella è nata a Fiume il 18 aprile 1933 da Adolfo Szörényi, ebreo di origini ungheresi e Vittoria Pick, triestina e cattolica. Il padre, precedentemente sposato, aveva avuto altri quattro figli dalla prima moglie. Arianna, minore di cinque sorelle e due fratelli, era cresciuta nella città di Fiume, dove i genitori lavoravano con la qualifica di impiegati di banca. A causa delle leggi razziali del 1938 e dei bombardamenti sulla città di Fiume, erano stati costretti a lasciare il lavoro e nel 1943 la famiglia Szörényi era sfollata a San Daniele del Friuli, stabilendosi in un appartamento poco distante dalla casa dove viveva la sorella maggiore.
Una lunga intervista, da leggere, che finisce così:
«Termino questo mio racconto col rimpianto per la mia famiglia, ma voglio esprimere un pensiero devoto per gli innumerevoli, sconosciuti e scheletrici cadaveri ammucchiati e abbandonati nei lager nazisti e un accorato pensiero al milione e mezzo di bimbi cui non fu concesso di vivere. Che nessuno possa mai dimenticare o negare l’accaduto».
Questa fu una delle tante storie prodotto anche delle leggi razziali. Storie che spesso si intrecciano a seconda di dove si sposti il pendolo del caso che può spostarsi verso le regioni dell’indifferenza, della cattiveria e dell’autentico terrore, o muoversi verso la fortuna o l’estrema bontà di quanti aiutarono queste persone a vivere.
E “caso nel caso”, vale la pena ricordare la peripezia della famiglia Nissim salva grazie a chi non parlò, sempre qui a Cunardo, un paese dove queste storie ancora raccontano, divenuto paese crocevia di ricordi.
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