Ieri il fascismo, oggi il virus: le due Liberazioni della Valcuvia
Di fianco ai ridotti della Linea Cadorna sorge l’hub vaccinale. Similitudini e suggestioni, oggi come ieri, di una grande lezione di altruismo
Nelle notti di luna sembra di assistere alla schiuma della cresta di un’onda che rimane bianca, senza cadere, sospesa nel buio.
Ma quando il sole lo illumina, il monte San Martino svela il suo vero volto fatto di roccia.
È il riparo duro dei primi partigiani, i pezzi di un esercito che non volle arrendersi e salì in montagna per dire no, e se il caso morire per liberare (uno dei primi episodi della Resistenza italiana, anche se purtroppo il giogo nazifascista e la guerra rimasero da queste parti e ben oltre l’autunno del 1943).
Oggi, a distanza di un passato lontano che sembrano secoli da queste parti c’è ancora chi non si arrende. Sono persone che vivono con gli stessi colori appuntati sulle divise di un tempo, oggi cuciti addosso a chi combatte per un’altra lotta di liberazione, quella dal virus.
È l’esercito ad aver montato i tendoni che a Rancio Valcuvia rappresentano il riparo dalla paura dell’ignoto e che servono a chi, dalla mattina presto e per tutto il giorno, entra ed esce per farsi vaccinare: prima i super anziani, al principio di aprile, poi oggi via via le classi più giovani. I medesimi tricolori sono quelli della Croce Rossa Italiana e delle tute dei volontari di protezione civile che non sono un elemento decorativo ma esistono per indicare una cosa precisa, come dire “stiamo dalla stessa parte”.
E contro la minaccia, oggi come un tempo, vengono adottate contromisure. A ingannare il nemico ci sono i vaccini a “Rna“, in grado di mimare alla perfezione un’infezione virale per ingannare il sistema immunitario del corpo nel quale vengono inoculati generando così una reazione, come se si trattasse di un “vero“ attacco virale.
Ieri invece su queste montagne ricche dei trinceramenti di una linea battezzata col nome non troppo felice di un generale (“Linea Cadorna“, conosciuta dai tecnici della storia come “Frontiera Nord”), i trabocchetti per ingannare gli aggressori non mancavano. E furono tra l’altro il frutto di un’intelligenza collettiva che trasformò queste montagne in una babele di dialetti, con operai giunti da mezza Italia a partire da prima ancora che scoppiasse la Grande Guerra per costruire un bastione fatto di pietre e furbizia.
«Le strutture militari, sia a scopo difensivo che a scopo offensivo, non basavano la loro efficacia solo sulla robustezza ma anche su particolari che a prima vista potevano sembrare errori strutturali, ma che nella realtà avevano una loro giustificazione». Degli inganni, in pratica, scrive il primo capitano degli Alpini Carlo Martinelli.
«Esistevano addirittura manuali che indicavano le norme per la costruzione delle “banali” trincee. Uno stratagemma costruttivo che vediamo applicato in queste trincee, si riscontra nelle scalinate che troviamo in alcune zone della Linea Cadorna, costruite con scalini più alti del normale e con pedate ridotte, che obbligavano un assalitore a salire con difficoltà, impedito anche dalle scarpe chiodate e dall’equipaggiamento: pochi uomini in cima alle scale, sarebbero stati sufficienti per fermare il nemico», scrive l’ufficiale.
E la prova sta nelle lunghe scalinate di Brezzo di Bedero (foto sopra) che con amore i volontari ripuliscono e rendono splendenti e come nuove, addirittura inserendo nei trinceramenti ancora ben custoditi vecchi arredi e «spiegoni» utili a tutti.
Ma non solo. Peter Faesi, professore di storia dell’Università di San Gallo in Svizzera, fra i più grandi esperti di fortificazioni militari a livello europeo e amante dei “lost places“ – i posti perduti e dimenticati – sostiene che «lungo queste fortificazioni, chiamate “Linea Difesa Nord” non si è mai combattuto e vengono anzi totalmente dimenticate dopo la Prima Guerra Mondiale e inutilizzate nella Seconda. Ma le strade vengono più tardi trasformate in carrozzabili per il turismo. E, ironia della storia, già Cadorna posizionò segnali enormi del Touring Club Italiano per nascondere la funzione delle costruzioni e ingannare i nemici».
Scale che rallentano la corsa. Cartelli che indicano località inesistenti e si spacciano per indicazioni veritiere.
Ricordano qualcosa? Ancora loro, i vaccini.
E anche l’uso che venne fatto di molte di queste strade militari ha rappresentato un’occasione di sviluppo per aree che altrimenti sarebbero state difficilmente raggiungibili, basti pensare ai sentieri, alle camionabili e alle mulattiere realizzate in sasso che costellano gran parte di questi percorsi ancora oggi fruibili in una serie di tragitti raccolti in un sito della Provincia di Varese.
Una funzione di sviluppo agro-silvo-pastorale che la studiosa Francesca Boldrini, una delle poche storiche ad avere avuto accesso agli archivi di Cadorna, sostiene essere una delle scelte di alla base dell’edificazione di quel grande complesso di fortificazioni che si dipana dalla Valle d’Aosta alle Orobie.
«Del resto Cadorna, che era originario di Pallanza, conosceva perfettamente le dinamiche economiche delle aree nelle quali venne realizzata la Linea, che non fu mai armata, fatto salvo per i pezzi di artiglieria posizionati nel forte di Colico che spararono una sola volta sulla rotta dell’esercito tedesco proprio durante gli ultimi giorni di guerra».
Costruire per aiutare le popolazioni del posto a superare i tempi duri della guerra: stimolare l’indotto, diremmo oggi. Segnali di ripartenza che non possono nascondere un’ulteriore similitudine con quanto si sta facendo per la libertà di tutti noi. Oggi, come nel tempo che fu.
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