Opera al femminile
di Paolo Negri
Le ricerche del re scomparso bussarono all’ultima porta, quella dell’archivista: C’è una donna, sì. Vive nel bosco insieme ai lupi e sa leggere i sogni, va da lei. Saprai riconoscerla, non dubitare.
Sophia partì in mountain bike, leggero trotto, con ordine d’importanza vitale e sangue nelle vene regale, direzione decisa dalla bussola digitale, senza spade né veleno. Questa possibile soluzione passò da immense campagne, lontani campanili, notturni campeggi.
A Settembre, un piccolo paese perpetuante addii all’estate tra tavole in strada, birre in mano, violini sulle spalle, piedi per terra e gonne per aria, la vide per la prima volta. Uscendo da una corte affollata, era avvolta in un silenzioso mantello, quasi avesse la consistenza di un pensiero. Sophia allungò una mano per chiamarla ma lei si dileguò in una rosa.
Sophia perse l’equilibrio e franò addosso a un omone vestito di pelle che la riconobbe e con irruenza la infilò in un sacco di juta: “Ti riporto a corte mia cara, figlia del re, di banditi balzani e scelte sbagliate ne girano troppe qua in paese, punto!”.
Due gemelli siamesi assistettero a quel saccheggio e venuta sera, prima riempirono l’omone di grappa, poi aspettarono che si addormentasse, infine svuotarono il sacco. Sophia, sorpresa dall’azzurro della loro pelle, li vide correre via mano nella mano e saltare in un pozzo. Non li seguì. Prese l’altra via di fuga disponibile: una strada che si infilava nel bosco. Indossò il giubbotto catarifrangenti, accese le luci e partì, stringendo forte le manopole del manubrio per farsi coraggio. A ogni minimo rumore (occhi aperti nell’oscurità) accelerava.
Il timore si fece sempre più ripido, come la strada. Sbagliò una curva, cadde e svenne. A svegliarla fu un canto femminile. Sophia prese la bici, le luci e non curante delle ginocchia sbucciate, si incamminò verso quella voce. Scostò le cadenti fronde di un immenso albero e trovò, illuminata da un cerchio di candele, una bambina che si dondolava su un’altalena appesa a un ramo.
La sommità dell’albero si perdeva nella notte come le profondità dell’inconscio.
“Sei tu che leggi i sogni, vero?”
“Ciao Sophia, benvenuta”
“Sei tu che ho incontrato l’altro giorno alla festa, vero?”
“Quante domande!”
“E i lupi dove sono?”
“I lupi li hai con te, sono nelle storie che mi racconterai, chiamali”.
Sophia, di fronte alla suadente voce di quella bambina vestita di bianco, iniziò a raccontare, senza vergogna né reticenze, di un re tiranno e di sua figlia e di quel cuore ostaggio della scure di un boia che non ammetteva ambivalenze: o si ama o si odia.
(Ispirato a Samarcanda, Roberto Vecchioni, 1977)
Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Renato Pegoraro
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