Da Luino alla Lego, la storia di Chiara Tepsich
Una laurea in ingegneria, una passione per il marketing che l'ha portata alla Lego. Storia di una luinese che ha trovato la sua dimensione in Danimarca
Una laurea in ingegneria, una folgorazione per il marketing, un lavoro a Billund, nella sede di una delle più importanti aziende produttrici di giocattoli del mondo, la Lego. Chiara Tepsich, 34 anni da Luino, ha trascorso gli ultimi dieci in Danimarca. Ma ha iniziato a viaggiare ben prima: «ho cominciato ad andare all’estero quando frequentavo il liceo, ho fatto il classico scambio e sono stata per tre mesi in Canada».
Conseguita la laurea triennale, per la specialistica in International management ha girato tra Madrid, Como e Stoccolma, quindi ha iniziato a lavorare in L’Oreal. «In quegli anni ho scoperto il mio amore per il marketing». Anche se a portarla in Danimarca è stato inizialmente il suo amore per Roberto Zanaldi, anche lui di Luino, all’epoca fidanzato ed oggi marito di Tepsich: «lui già dieci anni fa lavorava a Copenaghen, mi diceva che non si viveva male. Ho visto che c’era un annuncio di lavoro della Lego, ho fatto domanda e mi hanno preso nel loro graduate programme».
Ovvero un progetto di inserimento che prevede che per alcuni mesi i nuovi assunti operino nei diversi reparti, e sedi, dell’azienda: «ho cominciato in Danimarca, poi sono stata a Praga e Hong Kong, quindi sono tornata qui». Ovvero dove da dieci anni vive e si è costruita una carriera in quel marketing che tanto l’appassiona e del quale si occupa, stabilmente, dal 2015.
«Qui a Billund ci occupiamo di due attività», racconta, «la prima riguarda lo sviluppo, ovvero capire quali prodotti lanciare e a che prezzo. Un’attività che coinvolge anche i bambini». Nel senso che vengono invitati a giocare con i nuovi set e a valutarli. «Grazie a loro capiamo cosa fare: sono molto razionali, hanno bisogno di una storia, di determinati appigli nei prodotti per capire come giocarci». Ed è appunto sulla base dei feedback dei più piccoli che nei cataloghi sono sempre presenti, pur rinnovandosi, la caserma dei pompieri e il castello di Elsa, la protagonista di Frozen.
La seconda attività è invece «la campagna pubblicitaria vera e propria, che viene consegnata a tutti i paesi perché venga adattata localmente». Sì, il messaggio non è uguale in tutto il mondo: «Lego ha una tradizione diversa in varie nazioni. Ci sono quelle nelle quali è un marchio storico e altre in cui è nuovo. Penso all’Asia e agli Stati Uniti, dove i genitori dei bambini di oggi non sono cresciuti con i mattoncini». Senza dimenticare che da qualche anni l’azienda ha introdotto dei set pensati per gli adulti. «Questo ci impone un modo nuovo di comunicare. E sta funzionando anche con persone che non avevano giocato con i Lego durante l’infanzia».
Non solo. «Abbiamo partner come Disney e Universal, che ci forniscono in anteprima le concept arts dei film in uscita». Ovvero, per i non appassionati, gli episodi delle saghe di Star Wars, The Avengers, Jurassic World. Normalmente il team di marketing lavora a stretto contatto con i designer, ovvero le persone che si occupano di «trasformare qualcosa di reale (anche solo sul grande schermo, ndr) in qualcosa di costruibile da un bambino».
Ma, al di là della particolarità di un’azienda come Lego, com’è il mondo del lavoro in Danimarca? «È estremamente flessibile», spiega Tepsich, «io ho due bambini, uno di 4 e una di un anno e mezzo, e ho sempre avuto tantissima flessibilità». Conciliare il tempo del lavoro con quello della vita non è un ostacolo, insomma. «Fa parte della cultura danese, che si basa sulla fiducia». Tradotto nella pratica, significa che «noi non registriamo le ore, possiamo lavorare quando vogliamo. Certo, c’è un orario di lavoro, ma se un pomeriggio devo uscire alle 15 perché ho da fare, nessuno mi dirà nulla, perché sanno che magari recupererò dopo cena. La cosa importante è che io faccia il mio lavoro». Ed è proprio questo l’aspetto che rimpiangerebbe di più se dovesse tornare in Italia. «Ho visto che nemmeno la pandemia ha fatto comprendere i principi fondamentali dello smartworking: per noi lavorare da casa era normale già prima».
Altro elemento positivo, «una struttura aziendale meno piramidale, basata sulla cultura del consenso. È difficile che si impongano delle decisioni dall’alto senza consultare le persone». Non solo. Questo approccio «permette alle persone ai livelli più bassi di presentare delle idee e vederle approvate. Abbiamo avuto delle linee di prodotto lanciate da dei designer, ci sono dei momenti in azienda durante i quali tutti presentano le proprie idee».
Dell’Italia manca il clima, «le tante ore di buio invernale sono pesanti». E poi la socialità. «I danesi hanno un nucleo di famiglia e amici molto ristretto. Una volta entrati si è super protetti, ma è molto difficile. In Italia invece è tutto più fluido, anche se magari più superficiale, diciamo che è molto più semplice attaccare bottone». Non che la lingua sia un ostacolo: «tutti parlano inglese e comunque io ho imparato il danese». Una lingua tanto più importante quanto più i figli, che a scuola il danese studiano, crescono. E ancora più importante visto che di voglia di tornare a Luino, per il momento, ce n’è poca. «Per ora, con i bambini piccoli, sono contentissima di rimanere qui. Sull’assistenza la Danimarca è mille passi avanti. Se torneremo, sarà quando saranno cresciuti».
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