Da Altamura a Varese: “Storie e patorie” suoni e racconti dalla Murgia
L'artista Maria Moramarco ha raccolto i canti popolari della civiltà contadina della sua terra. Venerdì 9 dicembre si esibirà con il suo gruppo alla Sala Montanari di Varese (inizio ore 20 e 30)
“Storie e patorie” è il titolo dell’affascinante proposta musicale del gruppo pugliese capitanato dalla voce di Maria Moramarco, ricercatrice e cantante che, nel corso di decenni di lavoro, ha raccolto oltre duecento canti popolari della civiltà contadina della sua terra, riproponendoli attraverso una chiave di lettura moderna e ricca di sapori e suggestioni timbriche.
Come nasce la sua ricerca sulla musica di tradizione orale in Puglia?
«Nasce per caso e quasi per gioco, quando poco più che sedicenne una mia amica mi invitò a far parte di un gruppo che si occupava di ricerca e tradizioni, la cosa mi piacque e mi coinvolse sin da subito portandomi a valorizzare e scoprire una musica che all’epoca avevo sotto il mio naso, a portata di mano, così vicina da non esserne consapevole. Mia zia Graziella aveva una voce spettacolare, era una cantatrice nei pellegrinaggi e nelle pratiche religiose “paraliturgiche” mio padre cantava, si cantava nelle campagne, le vicine di casa cantavano. La mia attività in quel primo gruppo servì a farmi rendere conto per la prima volta che tutto quello che si sentiva aveva importanza contrariamente a quanto una certa cultura ufficiale voleva far credere, bollando le canzonacce dei cafoni come roba rozza e da ignoranti».
Si rivolge a un’area specifica?
«La mia zona di indagine è l’Alta Murgia Barese e nello specifico il territorio di Altamura, una località che fino agli anni Settanta è stata una zona caratterizzata da attività agricolo pastorale e che ha subito un brusco passaggio al terziario e all’ industria negli anni Ottanta, tutto questo ha determinato un graduale abbandono delle campagne e la disgregazione del mondo rurale».
In cosa consiste la vostra rielaborazione?
«Con il mio gruppo storico con cui ho lavorato per oltre quarant’anni si è cercato di utilizzare i materiali e di dare una forma nuova, consapevoli che si tratta di una rilettura, di una interpretazione, certo aver attinto direttamente alle fonti anziché ad archivi mi ha aiutato ad avere ben presenti le persone, e il loro legame stretto con il canto, spesso questo ha creato una sorta di “onda lunga emotiva” per cui la nenia è per me “la nenia di nonna Maria”, il canto del carrettiere è per me il canto del mio papà».
Come selezionate i musicisti con cui collaborate?
«I musicisti con cui lavoro da anni anzi da decenni nella formazione Uaragniaun sono prima di tutto amici fraterni, Silvio Teot, Nico Berardi, Filippo Giordano, Luigi Bolognese (mio marito) inoltre la ricerca di colori e sfumature musicali mi ha portato a collaborare con giovani musicisti che hanno dato un fondamentale contributo specie nell’ultimo mio lavoro ”Stella Ariènte” (Visage Music) e mi riferisco ad Adolfo La Volpe, Alessandro Pipino e Francesco Savoretti che sarà con noi venerdì a Varese».
Perché secondo voi è importante la riscoperta di musica che altrimenti andrebbe persa? E come viene accolta dalle persone che vi seguono?
«Sono convinta che la perdita di questa musica sarebbe stata di una certa gravità. Abbiamo un sostanziale bisogno di conoscere il nostro passato e di non dimenticarlo. Questa musica è portatrice di racconti di un mondo e di una umanità sofferente espressi in una lingua antica fatta di suoni dialettali. E’ un tipo di musica che connota un senso di identità, di appartenenza e che ha un forte potenziale in termini di originalità e di bellezza. Le persone che ci seguono sono il nostro sostegno e ci gratificano in mille modi ma la reale sfida è incuriosire, interessare chi mai crederebbe di poter apprezzare questo genere di musica e qualche volta piccoli miracoli accadono e se qualcuno me lo comunica non posso che esserne felice».
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