A Cabiaglio da Garibaldi alla Grande guerra attraverso il romanzo di Pier Vittorio Buffa
Intervista all'autore del romanzo La casa dell'uva fragola ambientato a Cabiaglio e Varese lungo 150 anni di storia
Ci sono storie locali che escono dallo stretto perimetro in cui si sono sviluppate per diventare universali. È come vedere il mondo, e la storia con la esse maiuscola, usando lenti diverse.
Pier Vittorio Buffa ha sperimentato spesso nella sua vita professionale questa condizione. Nel giornalismo e poi nella scrittura di libri come i suoi ultimi due saggi sono frutto di testimonianze che partono da piccole comunità: Io ho visto, storie dei sopravvissuti alle stragi nazifasciste e Non volevo morire così. Santo Stefano e Ventotene. Storie di ergastolo e di confino, con prefazione di Emma Bonino, entrambi editi da Nutrimenti.
Il suo secondo romanzo, La casa dell’uva fragola è ambientato tra Cabiaglio (allora si chiama solo così) e Varese e corre lungo 150 anni. «Questa storia – come si legge all’inizio del libro – comincia nel maggio del 1918, ma non ha un inizio preciso e neppure una vera fine. Potrebbe andare indietro nel tempo per secoli o spingersi avanti fino a quando è stata raccontata».
La casa dell’uva fragola è dedicato a Ernesta, Francesca, Ezechiella e a tutte le donne vissute prima di noi. Storie che si sviluppano principalmente in una dimora nel piccolo paese della Valcuvia lungo tre generazioni e, come indica la copertina del libro, “questa casa è qualcosa di più delle sue mura. È la nostra storia, sono le vite passate e future”.
Pier Vittorio tiene molto a questo suo ultimo lavoro perché da quando è nato passa parte dell’estate a Castello Cabiaglio proprio in quella Casa dell’uva fragola che ora è diventato anche un romanzo.
Come nasce l’idea del libro?
«La scintilla è scoccata una sera di agosto del 2020 quando mia moglie Paola mi chiese perché non scrivessi un libro intitolato la Casa dell’uva fragola. Le risposi, con sufficienza, va bene, ma accompagnai la risposta con un gesto della mano molto chiaro: ma cosa dici? l’uva fragola? Ma sì, ribatté, guarda com’è verde e grande, è la cosa più bella di questa casa. Passammo ad altro e non ci pensai più. O almeno credevo di non pensarci più. Perché invece, probabilmente senza nemmeno accorgermene, scansionai tutto quello che avevo accumulato dentro di me, come lo ripassassi per prepararmi a un esame: uomini, donne, fatti storici, dolori, gioie. Tutto quello che mi era stato tramandato dai racconti di famiglia e tutto quello che avevo raccolto in parrocchia e grazie a qualche libro di storia. Cercai anche di scoprire un segreto mai svelato, un segreto di fronte al quale i racconti di nonni e zie si fermavano, scivolavano via con consumata abilità. In fondo poi scrivere un romanzo così è un modo per raccontare un pezzo della storia d’Italia partendo da Castello Cabiaglio»
La casa dell’uva fragola si chiamava davvero così?
«Tutto quello che è scritto nel libro è vero. È un romanzo costruito intorno a tanti personaggi e in un contesto storico preciso. La casa è uno degli elementi centrali».
Quanto è stata difficile la ricostruzione storica?
«La macro storia è stata facile, mentre le micro hanno richiesto maggiore lavoro e sono state più complicate. Non si scrive molto delle vicende familiari locali. Parte della documentazione l’ho avuta in eredità. Dopo la morte dell’ultima zia mi arrivarono a casa scatoloni pieni di carte e fotografie nei quali mi immersi una, due, tre volte. Vi si documentavano la crescita delle querce fatte piantare da uno dei miei bisnonni, l’importante ruolo pubblico avuto da un avo, il destino militare di un prozio, le vicende catastali della casa. Tutto era lì, tenuto insieme da fettucce colorate un po’ logore o custodito in preziose cartelle di cuoio come non se ne fanno più. Ogni tanto ne parlavo con gli amici d’infanzia che incontro ogni anno a Cabiaglio. E anche con i miei amici di Roma: bastava la domanda più banale che si possa fare, cosa fate la prossima estate, per raccontare di quel paesino che nessun romano conosce e di cui qualcuno fa anche fatica a pronunciare il nome. Poi, rispetto ad alcuni periodici storici, avevo studiato tanto le lettere della prima guerra mondiale lavorando con l’archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano».
Qual è la tua relazione con Cabiaglio?
«A Cabiaglio ci sono un pezzo delle mie radici. Frequentarlo mi ha consentito di conoscere questa realtà che è profondamente diversa dalla grande città. C’è meno solitudine, le relazioni sono più strette e si sviluppano maggiori legami. A Cabiaglio mi chiamano tutti romano. Quando venivo in vacanza mi prendevano in giro e lo stesso mi succedeva poi rientrando a scuola a Roma per l’accento milanese dopo che avevo passato nel Varesotto un mese e mezzo. Questa esperienza mi è servita molto anche per il mio lavoro perché immergersi in una realtà così diversa mi ha permesso di vedere il mondo con altre lenti. Tornare a Cabiaglio mi piaceva sempre di più. Per i motivi per cui a un adolescente piace andare dove si è più liberi. Ma anche per un qualcos’altro di cui mi sono reso conto anni dopo: in quella casa si raccontavano storie. Del nonno, della bisnonna, dello zio e della zia. Di quella lunga gita in mezzo ai boschi, di quando c’era la guerra, del gelo invernale, dell’acqua del pozzo. Tutto questo è entrato dentro di me lentamente ma costantemente, si è depositato senza che nemmeno me ne rendessi conto».
Qual è stata l’emozione più grande una volta finito il libro?
«L’emozione di aver costruito delle storie che facevano parte della mia vita. Erano sui muri della casa e rivedere i caratteri dei protagonisti, i modi di vestire, di parlare così come mi erano stati tramandati è stato forte. Ho ridato vita a personaggi che non c’erano più».
Storie di personaggi, ma anche di un territorio che va da Cabiaglio a Varese…
«Lo sforzo è stato quello di mettersi in un’ottica particolare. Guardare la storia d’Italia, ad esempio la prima guerra mondiale, attraverso la vita di un’intera comunità. Nella grande guerra a Cabiaglio ci furono sedici morti con altrettanti funerali senza bara. È stato un modo di ricordare questi ragazzi caduti. Racconto il tormento del postino che insieme con la gioia di consegnare lettere e cartoline di chi era al fronte, si recava nelle case con il sindaco per portare le tristi notizie. Poi è stata anche l’occasione per raccontare zone che sono poco conosciute».
I protagonisti lasciano Cabiaglio per un intero anno a causa di una pandemia che semina morti. Un racconto che non può non ricordarci come un secolo dopo abbiamo vissuto la stessa condizione…
«E si, la spagnola arrivò subito dopo la fine della guerra e la famiglia protagonista lascerà il paese per una casa di proprietà sul Poncione. È uno degli spazi che racconto insieme con i giardini Estensi che sono un elemento altrettanto importante per il romanzo. Lì, oltre a un mio avo che aveva la responsabilità di curarli, avvengono fatti importanti e poter fare la prima presentazione nel salone Estense con la vista di spazi così belli, è come vivere una delle scene del racconto».
Perché non hai usato i dialoghi?
«Perché sono storie raccontante e tramandate e immaginare le parole esatte mi sembrava forzato. Ho scelto di essere più fedele alla tradizione orale».
L’AUTORE
PIER VITTORIO BUFFA ha lavorato per quarant’anni come giornalista nel Gruppo Editoriale L’Espresso. Fra i suoi libri: Al di là di quelle mura (Rizzoli, con Franco Giustolisi), viaggio-inchiesta nelle carceri italiane; Mara Renato e io. Storia dei fondatori delle BR (Mondadori, con Giustolisi e Alberto Franceschini); Io ho visto, storie dei sopravvissuti alle stragi nazifasciste, portato in teatro da Pamela Villoresi, e Non volevo morire così. Santo Stefano e Ventotene. Storie di ergastolo e di confino, con prefazione di Emma Bonino (entrambi Nutrimenti). Ufficialmente dispersi, il suo primo romanzo, è stato pubblicato da Marsilio, Transeuropa e ora è nel catalogo Piemme. La Casa dell’uva fragola è il suo secondo romanzo.
LA PRESENTAZIONE
La prima presentazione del libro si terrà venerdì 10 marzo alle 18.15 a Varese nel salone Estense. Con l’autore saranno presenti Enzo Laforgia, assessore alla cultura del Comune di Varese, Marco Galbiati, sindaco di Castello Cabiaglio, Marco Giovannelli, direttore di Varesenews e Silvestro Pascarella, direttore della Prealpina.
IL LIBRO
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