I tuoi occhi. La loro espressione. Lo sguardo. Il modo con cui gesticoli, con cui muovi il corpo. Gamba giù, gamba su. Come ti tocchi i capelli. La piega delle tue labbra quando sorridi, imbarazzata o felice per quello che ascolti.
Sono commissario di Polizia, e questo mi aiuta. Abituato da molto, troppo tempo, a trattare con persone della peggior fatta, che cercano in tutti i modi di vendermi una realtà inesistente, una versione che non sta in piedi, solo per salvare la pelle. E io devo capirlo, e in fretta.
Così è stato con te. Una festa da amici, ti squilla il telefono. Ti sposti per rispondere ma rimani a vista. E io ti osservo. Ti analizzo, come faccio tutti i giorni con la feccia del mondo. E all’improvviso, un flash. Non è bastato un pugno di giorni di passione, il contatto dei nostri corpi, le mille cose raccontate che ci univano – o almeno così pensavo.
C’è un altro – o forse io non ci sono mai stato.
Sorridi al telefono, poi ti accorgi che ti guardo e giri le spalle, chiudi la chiamata frettolosamente. Torni tra noi, ma sei lontana anni luce.
Aveva tutti gli ingredienti per diventare una bella storia, ed è dura ammetterlo per un commissario: mi sbagliavo.
Vorrei dirti tante cose. Che non ti ho mai amato, che non me ne frega nulla del colore dei tuoi capelli quando il sole li illumina, della curva dei tuoi fianchi in cui mi perdo la mattina, della tua voce che mi arriva allo stomaco.

Ma ti guardo negli occhi, e non riesco a dire nulla.

Ispirato a “Se telefonando”, a ricordo di Maurizio Costanzo, autore con Ghigo De Chiara del testo. Racconto di Gianluca Fiore (www.ilcavedio.org)
Foto di Karolina Grabowska da Pixabay 

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