Giovanni Bloisi, la sua bici con l’anima e la vera impresa: «La memoria va tramandata, anche pedalando»
La bicicletta è un simbolo della pace, «aiuta a pensare e ti insegna a volere un mondo migliore». Le strade in salita non fanno paura, l’indifferenza sì per questo con la sua sensibilità Bloisi è diventato il ciclista della memoria
I binari di Birkenau, li vedi e trafiggono il tuo cuore. Quei binari che entrano nel campo di sterminio sembrano non finire mai e ti raccontano tutto, migliaia di vite umiliate. E da quasi ottant’anni, lì, la malvagità umana è soffocata da un silenzio che non tace. Un silenzio che urla dentro le anime pure, come quella di Giovanni Bloisi che rivede quei binari nei suoi pensieri e piange oggi come dieci anni fa, quando li raggiunse in bicicletta: «E la bicicletta si fermò come un mulo che non voleva andare più avanti. Con i pedali che sentivo come macigni sotto i piedi che mi tremavano».
Compagna di avventure memorabili, è proprio il suo caso, «la mia bicicletta ha un’anima pura»: lui la vede così. «Come a Buchenwald, quando volli andare a visitare le stanze degli esperimenti del dottor Eisele, responsabile di esperimenti su cavie umane, tra i più atroci, che una mente sana non è nemmeno in grado di immaginare. Anche lì, a tre chilometri dalla meta, non andava più avanti».
Testa, gambe, pensieri, lacrime, cuore e una bicicletta con l’anima. Giovanni Bloisi s’interroga spesso sul senso del suo pedalare. È “il ciclista della memoria”, di lui si è parlato e scritto molto, «ma il problema, la questione cruciale è la memoria. Spesso la gente si sofferma sulla prestazione di un ciclista, ma non è questo il senso di quel che faccio. La memoria condivisa è la vera impresa».
Per molti anni, l’idea è rimasta solo una fantasia, in attesa di maturare, mentre il tempo faceva di Giovanni un giovane curioso del mondo, un impiegato, un marito, un papà, un alpinista, un amministratore pubblico, un sindacalista, un appassionato di calcio, un educatore, un allenatore, un camminatore. E, finalmente, un ciclista, ma non come gli altri. «A un certo punto della mia vita, ho detto a me stesso che era giunto il momento di dare spazio a quel che sentivo dentro, ovvero il desiderio di non dimenticare, non dimenticare le vite spezzate dalla malvagità dei regimi, umiliate dalle scelte folli di dittatori e oppressori. Sentivo il bisogno di far qualcosa, per non dimenticare pagine tristi, spesso atroci, della nostra storia. Al tempo stesso, sentivo il dovere di ringraziare i tanti italiani, le tante persone, spesso molto giovani, che hanno sacrificato la loro vita per regalarci quello che noi viviamo quasi senza rendercene conto: la libertà, la democrazia, la pace. Tre tesori che diamo per scontati, ma non lo sono affatto. Tre regali che molte persone che hanno dato la vita, non hanno nemmeno visto».
Giovanni Bloisi ha scelto il percorso dell’uomo semplice, amico della fatica. Ricorda e, come ripete spesso, onora la storia pedalando: «Non sono uno storico, non ho avuto la fortuna di studiare da ragazzo, ma ho imparato dalla vita. E ora imparo pedalando, la bicicletta è uno strumento ideale per conoscere e capire. E fare memoria a modo mio».
Dai campi di sterminio, al fronte del fiume Don: la storia tramandata pedalando
Figlio d’immigrati, giunti a Varano Borghi negli anni Sessanta, Bloisi ha cominciato a pedalare proprio per onorare e ricordare le sue origini, il borgo di Carbone, in provincia di Potenza: «Dalla Lombardia alla Basilicata, una prima volta indimenticabile». E da quella volta, migliaia di chilometri sono venuti dopo, miliardi di giri di ruota e di colpi di pedale, fiatone e sudore accettati per traguardi nobili: «E, in più, ho scoperto che la bicicletta è uno straordinario strumento di comunicazione. Proprio così: la bici parla con un linguaggio comprensibile a tutti ed è capace di conquistare i giovani». E così, Bloisi ha trasformato la sua idea in forza nelle gambe per arrivare ad Auschwitz; per onorare lo sbarco in Normandia; per piangere nelle praterie e nelle foreste diventate la tomba di migliaia di soldati italiani, sul fiume Don, tra Ucraina e Russia; per far conoscere la storia dei bambini di Selvino, piccoli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti; per far celebrare le imprese del capitano Levi, ex militare che sfidò il fascismo per mettere in salvo migliaia di ebrei; per ripercorrere l’impresa dei Mille e di Garibaldi, da Genova alla Sicilia, fino a Teano; per sostare e meditare sull’Olocausto davanti allo Yad Vashem di Gerusalemme. Sono tante le imprese a pedali studiate, vissute e condivise da Giovanni Bloisi negli ultimi dieci anni: e attorno a quell’idea, si è sviluppata una rete di persone, storici (su tutti i professori Cusaro, Cavallarin e Miriam Bisk), comitati, associazioni, volontari, studenti. «Persino in Russia, spontaneamente, mi sono ritrovato persone che sapevano di me e mi hanno aiutato». Pedala in solitudine, ma oggi c’è una vera squadra della memoria che lo affianca, lo aiuta nell’organizzazione dei percorsi, lo istruisce, lo ospita, lo conforta, lo incoraggia.
A giorni partirà di nuovo. Prima tappa il 2 maggio, da Milano, traguardo finale il 27, a Trieste: «Da due anni, un pezzo alla volta, sto pedalando per dire grazie a tutti gli italiani che hanno sacrificato la loro vita per regalarmi un’Italia libera e democratica». Ogni cippo, ogni lapide, ogni luogo teatro di stragi del nazifascismo saranno toccati dalla sua bicicletta: dopo aver percorso il Piemonte, la Liguria e una piccola parte di Toscana, questa volta viaggerò in Lombardia, Trentino Alto-Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia». E a ogni tappa un’emozione: «Belle persone, giovani e meno giovani, piccoli comitati, sindaci, scuole, associazioni: il mio passaggio, a ogni tappa, diventa sempre un piccolo evento per tutti. Memoria condivisa, appunto, per non dimenticare».
La bicicletta è un simbolo della pace, «aiuta a pensare e ti insegna a volere un mondo migliore»: lo hanno detto in molti, ma Giovanni lo dimostra nella sua semplicità genuina. E sa benissimo che il problema della memoria è molto serio per il futuro: «La shoah, la resistenza sta perdendo testimoni diretti. Presto non ne avremo più e il pericolo dell’indifferenza è reale: tutti i mezzi, bici compresa, devono aiutare a tramandare le testimonianze, le storie. I più giovani, fortunatamente, recepiscono molto bene il significato del mio pedalare. Mi preoccupano di più i quarantenni, i cinquantenni, quella generazione sta perdendo il senso della memoria e con esso i valori conquistati col sacrificio. Perché, come ormai leggiamo ogni giorno, un popolo che ignora, che non sa, che dimentica, è perfetto per chiunque si alzi la mattina a dire che certe cose non sono esistite, o che vanno minimizzate. Stravolgere la realtà, capovolgere la storia è facile se la gente dimentica o ignora».
Come una chiocciolina pedalante, Bloisi in sella alla bicicletta fa la sua parte, guarda avanti ricordando il passato. Tutto solo, con le borse e la tenda sul portapacchi: «E il mio passaggio non lascia mai indifferenti, per fortuna. Come quella volta che a vedermi e a fermarmi fu un’anziana signora, in Russia, per cantarmi “Mamma son tanto felice…”. Parlavamo due lingue diverse, in un villaggio poverissimo, ma quel canto era il ricordo vivo di un incontro, nel 1944, quando un italiano si fermò lì vicino e le sorrise, facendola giocare e intonando quella canzone. Un ragazzo che il giorno dopo morì sotto i colpi dell’artiglieria russa». Quando fruga nei ricordi di viaggio, Giovanni diventa un fiume in piena di racconti, incontri mai dimenticati, paure e gioie.
Memoria da tenere accesa, memoria da condividere: le strade in salita non fanno paura, l’indifferenza sì
Le rughe e i capelli bianchi dimostrano un’età (68 anni), la voce, gli occhi, l’energia, i continui progetti per il futuro ne raccontano un’altra ben diversa: «Seguo la mia coscienza e continuerò a dimostrare che un pezzo di ferro con due ruote può parlare. A tutti».
Giovanni Bloisi, nato in Basilicata, cresciuto e invecchiato a Varano Borghi, ha fatto e farà molta strada. «Invece di andare in oratorio, da bambino mi infilavo in cooperativa. Bevevo una gazzosa e ascoltavo gli operai che si scaldavano per i salari, i posti di lavoro, le lotte sindacali, gli scioperi, le ingiustizie sociali. All’inizio non capivo, poi ho imparato. Come ho imparato la storia, sulla strada, in bicicletta».
Anno dopo anno, metro dopo metro, pedalata dopo pedalata, Bloisi ha imparato che la libertà e la pace sono tesori da difendere come un ciclista difende la maglia rosa: ogni giorno, ogni tappa, pronto ad affrontare la fatica, perché difendere la libertà è faticoso anche oggi.
«Credo sia un dovere, lo sento dentro me stesso». Su una strada di montagna, solo come un Coppi, è facile immaginarselo mentre raggiunge la lapide consumata di un eccidio, il cippo dimenticato da tutti in ricordo anche di un solo giovane partigiano morto per la libertà: si fermerà in silenzio, scenderà tremante dalla bici, piangerà come un bambino finché il cielo lo aiuterà a ripartire. Giovanni Bloisi ha una dote che altri ciclisti non hanno: la sensibilità. Così forte da farlo sempre piangere, ma anche da dargli la forza per continuare il suo progetto, nonostante il mal di gambe. L’ossigeno della memoria è proprio la sensibilità, è l’indifferenza a spegnerla, come la luce di una candela: e Bloisi, sorridendo dietro i suoi occhiali, è pronto a giurare che a rivelargli tutto questo sia stata la sua bicicletta con l’anima.
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