Una gavetta e una scheggia di bomba: il ricordo di Paul Ley in partenza da Gaza
L'ultima intervista dalla Striscia al medico di Laveno prima del suo ritorno in Italia dopo un mese trascorso in zona di guerra. «Lavoriamo senza sosta ma i feriti aumentano»
«Siamo nell’occhio del ciclone» con questo messaggio Paul Ley ci ha confermato l’intensificarsi delle battaglie di questi giorni a Khan Younis, nella Striscia di Gaza, dove da diverse settimane il medico lavenese è impegnato all’European Hospital con la squadra di chirurghi della Croce Rossa Internazionale.
In questi giorni in cui la pressione si intensifica al sud della striscia di Gaza, e i bombardamenti diventano intensissimi proprio su quella città, Paul Ley commenta la situazione cosi: «Noi non vediamo la guerra, però la sentiamo bene. I bombardamenti sono continuamente nelle nostre orecchie» spiega il medico di Laveno. (In alto: profughi in cammino verso un posto più sicuro, foto di Paul Ley)
Ley è alle sue ultime ore di lavoro a Gaza: «È già arrivata la squadra che ci sostituirà, la nostra partenza è prevista oggi» aggiunge infatti. Il lavoro del team di cui fa parte si è infatti concluso: come ci aveva raccontato nell’intervista precedente, il turn over tra medici è alto per evitare il rischio di burnout (ovvero da esaurimento professionale), in una situazione così estrema come quella. Da quella prima intervista, Ley ha ricevuto parecchie telefonate da colleghi: dalla BBC a France Info, da Repubblica all’Avvenire, da Rainews a “Uno, nessuno, centoMilan” di Radio 24, e al Guardian. È stato perciò un importante testimone di questa guerra, non solo per noi. La posizione dell’ospedale Europeo di Khan Younis, inizialmente defilata, si è rivelata giorno dopo giorno più strategica, suo malgrado.
Purtroppo si sarà infittito il suo lavoro…
«In realtà, il lavoro è sempre quello. Noi abbiamo sempre le stesse quattro sale operatorie e la possibilità di operare non può aumentare di molto. Fino ad ora abbiamo fatto 77 amputazioni: in fondo, sono poche. Quindi per noi il lavoro non è cambiato di molto. Il problema è che si accumulano i pazienti: nel nostro ultimo giorno di lavoro c’erano in coda 350 persone, solo per noi ortopedici. Poi ci sono gli ustionati e tutto il resto».
Un problema che si riverbererà nel futuro dei cittadini della striscia. «Queste sono tutte persone che saranno per sempre disabili e avranno grandi necessità, in futuro. Ci sono state grosse discussioni tra noi a questo proposito nel corso della mia permanenza. All’inizio non tutti volevano amputare, facevano qualunque cosa per conservare l’arto: ma nelle condizioni, anche igieniche, che ci sono ora, non amputare è spesso solo rimandare il problema e crearne altri. Già adesso si cominciano a vedere le complicanze dei primi operati, ma la situazione peggiora sempre di più».
Nell’ospedale, in cui ormai si riversano gran parte dei feriti della striscia di Gaza essendo uno dei due soli aperti, la situazione è sempre più precaria: «L’energia l’abbiamo comunque sempre avuta, non è quello che ha ostacolato il nostro lavoro – spiega Ley – I rifornimenti invece sono diventati un problema maggiore: farmaci, attrezzature. O non c’erano o erano accatastati in maniera disorganizzata e perciò non erano reperibili».
Nell’intervista precedente, ci ha raccontato di migliaia di profughi che cercavano rifugio nell’ospedale. Com’è la situazione adesso?
«I profughi aumentano, ma si organizzano… abbiamo cominciato a notare dentro l’ospedale bancarelle di cose in vendita, una sorta di mercatino fatto con le derrate regalate che vanno dalla scatola di tonno giapponese alle sigarette “di marca” egiziane. Si arrangiano».
Sentiamo che la situazione è drammatica ormai, nella parte della striscia di Gaza dove è stato finora. Ha la stessa percezione?
«Per certi versi no. C’è chi ha interesse ad esagerare le cose per fare pressione, ma spesso quelli che vengono raccontati dai telegiornali sono spettacoli, fatti a bella posta per impressionare. Se devo dire quel che penso, ritengo non sia necessario “metterla giù dura”: è già un casino così».
Ora sta per andare via: cosa si porta con sé da Gaza?
«Due pezzi di metallo, lo stesso metallo, acciaio. Uno è una gavetta, che serve per mangiare, bere, cucinare, condividere. L’altro è una scheggia di bomba».
E cosa non riesce a portarsi via?
«La convinzione di aver fatto tutto il possibile. E, come diceva l’aviatore francese Georges Guynemer: “se non hai dato tutto, non hai dato niente”».
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