L’umanità e l’intraprendenza di Bruno Tondo nel racconto di Carlo Banfi
Lo scrittore, in un racconto redatto qualche tempo fa dopo averlo incontrato per la sua produzione di miele, ricorda il 95enne deceduto lunedì 29 aprile in un tragico incidente a Castelveccana
Sono numerosi i messaggi di cordoglio che continuano ad arrivare per Vittorio Bruno Tondo, il 95enne deceduto lo scorso lunedì 29 aprile dopo essere stato travolto dalla sua stessa auto contro il cancello di un’abitazione in via Europa a Castelveccana.
In mezzo a questi pensieri di affetto, emerge anche il ricordo di Carlo Banfi, che ebbe l’opportunità di incontrarlo in occasione della sua attività di produzione. Un incontro dal quale è nato un racconto che riflette l’intraprendenza e l’umanità dell’anziano pochi giorni fa scomparso, qualità «veramente ammirevoli».
Pubblichiamo integralmente il racconto di Carlo Banfi
Oniria, tu vuoi che io ti racconti di questo lago verdognolo increspato dal vento che scende dalle montagne. Si sta bene al tiepido sole e l’ombra è fresca in questa estate che non ha inizio. Il tuo dolce viso mi tiene compagnia e non ho paura della vita quando mi sei accanto. La malinconia traspare dal volto di quell’ometto che siamo andati a trovare per il miele.
“Sì, ho la figlia, ma la moglie è diversa. E’ morta”. Così si confida dopo le prime battute d’incontro. Non sapevo e neppure immaginavo che esistesse quel posto. La montagna che vedi sopra la testa sembra precipitare nel lago e invece una stradina ci ha portati su declivi con case, regno di verdi balze e di alberi carichi di frutti.
Quel paesaggio serpeggia lungo il lago seguendo sinuoso un percorso tracciato in piano e sotto scorre dritta la ferrovia. I paesini dell’altra sponda appaiono nitidi e tersi. Lo sguardo si distende a nord, alle montagne del Canton Ticino, a quelle piemontesi più a ovest, con creste che giocano in linee marcate e a precipizio; poi la punta dolce del Mottarone. “I miei genitori erano friulani”. Ci dice il vecchietto. Si chiama Bruno ed è del ’28, ma non dimostra tutti quegli anni.
“Mio padre in guerra ha conosciuto un ingegnere edile; gli faceva da attendente. Mi ha raccontato di quello che accadeva in trincea. Un massacro. Le terre del Friuli non davano lavoro. Un nostro parente è emigrato a Latina, ai tempi della bonifica dell’Agro Pontino, voluta dal Duce. Sono andato a trovarlo. Là parlano ancora veneto. Mio padre dopo la guerra ha seguito l’ingegnere, che ha tracciato la strada che avete percorso. Lo trasportava con la barca lungo la riva del lago e ha visto questi terreni abbandonati perché anche qui emigravano, per il lavoro. Il bosco si era impadronito delle balze, la stalla era diroccata. Ha trasformato questa proprietà ormai inselvatichita. Adesso è cambiata ancora. Là c’era un orto che dava frutti meravigliosi per l’ingrasso delle mucche. Ne avevamo sei. Le portavo io al pascolo, verso la montagna. Venivano di quei porcini! Ora c’è mezzo metro di strame e ramaglie. Non ritrovi nemmeno più i sentieri. Giocavo e correvo con gli animali. Quando mia mamma mi chiamava, erano le mucche a sentire. Una sera son tornate solo loro e sono venuti a cercarmi con le lampade ad acetilene. Mi hanno trovato addormentato perché ero stanco. Quei prodotti mia mamma li portava al mercato di Laveno. Mio padre è morto presto, per le fatiche. Un fratello – eravamo in sei – è rimasto in Russia. Mussolini aveva dichiarato guerra a mezzo mondo. Maledette le guerre. E venivano i fascisti e ci portavano via tutto. Siamo rimasti senza bestie. Abbiamo valicato la montagna per venire a Mesenzana, a piedi, a prendere un vitellino, altrimenti si moriva di fame. Poverino, a un certo punto non ce la faceva più a camminare e abbiamo dovuto prenderlo in braccio. E si crepa ancora per la guerra! Perché lasciano là in Afganistan i nostri soldati? Anche i profughi, non devono lasciargli prendere le barche che affondano. Devono trasportarli coi traghetti. Anche noi qui eravamo emigrati e i primi tempi non ci potevano vedere. Altri parenti di mio padre, dopo la seconda guerra, erano più in là di Trieste e sono andati in Sardegna. Li scambiavano per zingari. Poi qui da noi sono arrivati i meridionali ed allora se la prendevano più con loro. Nel’44 ho rischiato la deportazione in Germania. Mi hanno fermato i Tedeschi con un amico; eravamo con due ragazze e ci hanno portato in caserma. A sera è arrivato un ufficiale che ci ha presi a pedate e ci ha mandati via. Nel ’43 sono entrato in fabbrica, alla Ceramica di Laveno, e piano piano sono diventato l’uomo di fiducia della manutenzione. E’ lì che ho incontrato mia moglie, che lavorava in produzione. Uscivano manufatti meravigliosi e di pregio, veri capolavori d’artigianato, eppure la crisi è arrivata anche lì. Abbiamo ritirato dei macchinari perfetti, da una ditta in Piemonte che chiudeva. I dirigenti mi avevano portato con loro per un parere. Erano meglio organizzati di noi. Se fallisce quella – ho pensato – come faremo a reggere noi! E così è stato. Quella falciatrice l’ho costruita io. Anche la betoniera. Taglio col rasaerba elettrico perché è domenica e non voglio disturbare i villeggianti. L’altra parte della casa è di mio fratello, la mia era la stalla. E quelli sono tedeschi che affittano per tutta l’estate. In inverno per due mesi il sole rimane dietro la montagna e qui c’è l’ombra. Il lago manda un riverbero di luce che è incredibile. La neve si scioglie subito. Quell’uva dava il vino. Viene dal Veneto e da altre parti”.
“Ma è identica a una qualità che ho anch’io e che mi son fatto dare da un vecchio del paese. Ha il grappolo allungato e stretto, con chicchi minuscoli. A fine agosto è già quasi matura e ha un sapore particolare. La chiamano la padovana”.
“Con quelle pere mio fratello ci fa la grappa e profuma di quel frutto”.
“Quelle mele ruggini sono come le mie. In paese sono rimaste solo loro di quel tipo. Anche le pere sono identiche a quelle che ho trovato nella proprietà. Diversi alberi però mi sono già morti”.
“Non posso darti troppi vasetti di miele. Le api, vedi, sono poche nelle arnie. Lavorano male”.
“Sarà il tempo fresco. Forse le intorpidisce”.
“Non so”.
La casa era in un disordine ordinato e prima di entrare si è spazzolato gli scarponi con la scopa. Nel localino della centrifuga c’era un profumo delicato di miele misto a quello della cera fresca. Il colore era chiaro, e sembrava denso. Abbiamo lasciato la macchina un po’ discosto. Per goderci la camminata e poi la stradina mi sembrava stretta. Non volevo avere sorprese. Due vasetti li abbiamo messi nella borsa di mia moglie e altri quattro li ho portati io in un sacchetto di plastica ben resistente, tenendoli dal di sotto con una mano.
L’ho ringraziato. E lui ha ringraziato me. Mi voleva offrire a tutti i costi una birra, ma gli ho detto che il miele era il segno della sua ospitalità e che l’avevo gradito più dell’oro. Finiti quei vasetti sarei tornato a trovarlo per assaggiare quello di castagno che ancora era negli alveari. Ma ho visto che anche là il castagno era ammalato.
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