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“Un inno di agrodolce consapevolezza”: Il nostro regno è la canzone che segna il debutto di Cece

L'intervista a Francesco Baranzini, in arte Cece. Il suo brano anticipa il disco d'esordio "Per amore della febbre". "Durante la pandemia ho avuto tante volte come l’impressione che la natura aspettasse con pazienza e fiducia il nostro ritorno, nonostante il trattamento da noi riservatole ultimamente. Il primo germoglio del brano è quello che è rimasto di un sogno di una decina di anni fa"

Francesco Baranzini - Cece

Esistono infiniti modi in cui l’ispirazione può giungere a un artista, ed infiniti modi di interpretarla. Il Nostro Regno, primo singolo di Cece che anticipa il disco d’esordio Per amore della febbre, è «uno dei brani dell’album nati da un sogno».

Le note del pianoforte usate in apertura e poi come drive nella prima metà della traccia, gli archi, le soluzioni melodiche cercate dal cantante di Angera, Francesco Baranzini medico classe 1993: in effetti all’interno della canzone una componente onirica persiste, anche se sarebbe riduttivo ingabbiare la canzone e le sue atmosfere al solo mondo dei sogni. Sarebbe, appunto, quasi come “imbrigliare” il brano, che invece, col suo progredire, fino all’assolo conclusivo, si carica anche di un colore e di un calore di immagini calde e terrene.

«Ho voluto scrivere un inno di agrodolce consapevolezza, che parlasse di malinconia e di speranza, di incertezza e di possibilità: incertezza sul futuro (comune denominatore per la mia generazione); possibilità di ritrovare un rapporto più sano, meno opportunista, con sé, con l’altro da sé e con il mondo». Così ci spiega Cece rispondendo alla domanda «Cosa significa per te il Nostro Regno»? Il più «banale e indispensabile» degli interrogativi, quando ancora il nostro foglio (virtuale) dell’intervista era completamente bianco.

«Se devo dirti la verità, non credo sia davvero “indispensabile”…mi spiego: credo che l’opera artistica, una volta condivisa, si sleghi dalle intenzioni e dalle emozioni che han portato l’autore a scriverla per diventare oggetto di percezione ed interpretazione a seconda della sensibilità chiunque ne fruisca. Ad ogni modo, facendo il medico ed avendo trascorso molto tempo percorrendo strade degne di un film post apocalittico durante la recente pandemia, ho avuto tante volte come l’impressione che la natura aspettasse con pazienza e fiducia il nostro ritorno, nel suo religioso silenzio, nella fissità dei cristalli delle brine invernali, agli angoli delle strade e fuori dai centri urbani. Tutto questo nonostante il trattamento da noi riservatole ultimamente. Ho voluto così scrivere un inno di agrodolce consapevolezza».

Come è nato il brano? Da un’idea, una frase, un’immagine che avevi in testa (chissà perché penso al mantello), oppure mentre eri seduto al pianoforte? Oppure ancora, alla chitarra mentre scrivevi il ritornello?

«Questo è uno dei brani dell’album nati da un sogno. Non nella sua interezza chiaramente, anche perché, come per quasi tutti i pezzi, ho seguito un processo creativo abbastanza lungo, lavorando di volta in volta alle idee che venivano secondo l’ispirazione. Parlerei di un’operazione di recupero mnemonico, raramente mi metto a cercare le idee, un po’ perché mi sembra di innescare un procedimento artefatto, un po’ per pigrizia forse. Il problema è che son loro a cercare me, buone o cattive che siano, così mi son ritrovato con il telefono pieno di registrazioni di quello che rimaneva di volta in volta di idee nate suonando o di sogni musicali in qualche modo fissati prima che il frullatore della vita quotidiana spazzasse tutto (note di frasi, pensieri, rime o melodie da rivedere, combinare e modificare per ottenere il risultato finale). Un lavorio di perfezionamento, di ricerca, di tentativi. Sono poi le canzoni a suggerirmi un tema, un senso compiuto se lo si vuol trovare, nel processo di sintesi. Certo la mia vita sicuramente condiziona tutto, cerco di restituire in forma artistica la mia sensibilità e le mie emozioni. L’immagine del mantello? Una sera, sotto un cielo stellato, ho pensato che sarebbe stato bello poterne fare un mantello. Tutto qui. La parola attorno cui ruota il pezzo credo sia “libertà”.

Quali strumenti hai suonato quando hai registrato la canzone?

«Ho suonato le chitarre (acustica ed elettrica), il piano e le tastiere».

Oltre a te, chi ha reso possibile la pubblicazione della canzone e del prossimo disco?

Chi ha lavorato materialmente con me cioè lo staff del Massive Arts Studios di Milano (la sessione di mastering con Alberto Cutolo è stata un’esperienza formativa che mi ha reso testimone diretto di tanta maestria e tecnica), i musicisti che han collaborato con me (Simone Rossetti Bazzaro per gli archi, Gabriele Costa al basso elettrico e fretless, Stefano Volpe alla batteria acustica); mio fratello Carlo che ha collaborato per i testi di alcuni pezzi del disco, la creazione dei contenuti multimediali (fruibili su instagram sulla pagina @francesco_cece_baranzini) e la creazione della cover, l’etichetta per la quale uscirà l’album (Sputnik Music) e il distributore (Altafonte Italia).

Chi ha realizzato la cover del singolo?

L’idea del soggetto è mia, la realizzazione e la resa cromatica sono di mio fratello.

Come mai hai scelto di esordire con questa canzone? In che periodo hai scritto Il Nostro Regno? Si tratta del primo brano che hai composto?

«No, il testo direi che è uno degli ultimi ad essere stato terminato; per la musica, come dicevo prima, il primo germoglio è quello che è rimasto di un sogno di una decina di anni fa, per una parte del ritornello. Il resto è un abito cucitogli attorno col tempo. Ho scelto Il nostro regno per la sua semplicità a livello di struttura armonica, per la sua cantabilità: è un brano che puoi cantare con una chitarra davanti ad un falò in compagnia senza troppa fatica, credo che questo sia tutt’altro che un disvalore».

Da quanto tempo scrivi canzoni?

«Da poco, nel senso che solo negli ultimi anni ho avvertito questa cosa che chiamerei urgenza espressiva farsi più pressante (fino a non lasciarmi dormire in pace) che mi ha imposto di dare una forma compiuta a quelle che prima erano soltanto idee; da sempre, nel senso che fin da quando ero bambino mi incuriosivano il processo creativo, la composizione musicale e l’ effetto dell’accostamento delle parole: una delle canzoni dell’album (si chiama Una Vita Intera) ha per ritornello una melodia che mi inventai in una vacanza in montagna con la mia famiglia, forse a nemmeno 10 anni d’età. Tenetti uno di quei bastoni che si usano nelle passeggiate, dopo una gita, per farne un’asta del microfono, così improvvisai il mio concerto tra le beole, mono-canzone. Di certo non pensavo che un momento tanto spensierato potesse un giorno significare qualcosa per me».

Nella vita di ogni giorno sei medico: c’è un qualche rapporto tra la tua professione e il tuo lato artistico?

«Sì, nel senso che la prima foraggia il secondo, attualmente. Tanto di cappello a chi riesce a vivere di musica, ci mancherebbe, ma si parla sempre di un cerchio stretto privilegiati: per merito nei casi più encomiabili, per interessi di mercato nella restante parte.  La mia professione mi consente di fare musica senza l’intento e la necessità materiale di essere comprato a tutti i costi, di essere mainstream: mi consente, per quello che conta, di essere vero. Inoltre lavorando con le persone ho modo di condividere aneddoti, emozioni, felicità e dolori nella loro autenticità: ho la fortuna di fare un lavoro in cui le maschere e le convenzioni servono a poco o nulla».

Come mai hai scelto “Cece” per firmare le tue canzoni? 

Mi chiamano così da sempre tutti, non so nemmeno da quando o grazie a chi. Persino i professori al liceo per interrogarmi l’han fatto qualche volta, forse sovrappensiero.

C’è qualcosa ti rende particolarmente affezionato a questo soprannome?

«Ci sono in realtà anche dei motivi pratici e non solo d’affetto (come dicevo prima è il mio soprannome dall’infanzia): è un nome corto, semplice, facilmente memorizzabile. Se devo dirla fino in fondo, forse non volevo usare il mio nome e cognome nel progetto per separare l’attività artistica dal resto della mia vita e magari anche per cercare di non prendermi troppo sul serio, per non apparire sussiegoso».

Quanti altri singoli saranno pubblicati prima del disco?

Usciranno ancora due singoli, uno il prossimo 13 settembre ed uno più avanti, prima dell’uscita dell’album. Il prossimo singolo si chiama Linea del Sud, la storia di sogno primordiale permeato di speranza, in cui un treno viaggia alimentato dai sentimenti invece che dal carbone.

Cosa puoi dirci del tuo disco? Quando uscirà, indicativamente, e quante tracce conterrà?

Il disco si chiamerà Per amore della febbre e conterrà 11 tracce, posso anticiparti che non sarà un disco monocromatico: a canzoni più intimiste e di stampo classico come Il nostro regno, si affiancheranno pezzi con sonorità più rock. Per quanto riguarda le tematiche, ci saranno sempre il mio cuore e le mie emozioni, ma emergeranno anche la mia connessione con l’acqua e gli echi di influenze mediterranee che vengono da lontano, ritrovati ora nella contemplazione da terra (chi come me vive vicino all’acqua conosce il tipo di legame che si instaura con essa) ora nella navigazione. Mi piacerebbe realizzare anche una piccola tiratura di copie fisiche all’uscita dell’album che presumibilmente uscirà in autunno, vedremo.

Sei un classe 1993, durante la tua adolescenza, nella seconda metà degli Anni 2000, il cantautorato italiano stava attraversando una fase di transizione ed era difficile, per lo meno nel mainstream, trovare nuovi cantautori incisivi, in secondo piano rispetto alle band alternative rock o al rap (- fanno eccezione forse per Vasco Brondi e Dente). Adesso invece i cantautori sono tornati e stanno ritornando alla ribalta in forme diverse. Per fare dei nomi penso a Lucio Corsi, Andrea Lazlo De Simone, ma anche Motta e Giorgiopoi, e già prima di loro Iosonouncane, Colapesce, e naturalmente Calcutta hanno detto questa via (se vogliamo aggiungiamo anche I cani). Sei d’accordo? Ma soprattutto quali cantautori ti hanno formato? C’è un po’ di Lucio Battisti? Forse è invitabile…

Come hai detto tu, in forme diverse. Non credo che si debba tracciare per forza il parallelismo tra cantautorato del secondo novecento ed indie italiano, o meglio creare una connessione univoca. Quello è un genere come altri che hai citato tu attraverso i quali oggi un artista può esprimere in musica quello che ha sentito e provato personalmente, vera prerogativa del cantautore. Certo oggi è difficile trovare autori che riescano a superare il proprio tempo, la vita è sempre più frenetica e sempre più spesso si sentono canzoni “a scadenza”, piene di riferimenti a fatti di cronaca del momento, di temi scottanti seppur effimeri, per provocare ed avere le attenzioni degli ascoltatori con facilità.
Per quello che riguarda le mie influenze, ti direi tutta la scena genovese degli anni 60-70, Dalla, Bertoli, soprattutto Piero Ciampi, perla rara e forse unico vero poeta ad aver scritto canzoni nel secolo scorso. Come lui ho evitato il citazionismo ed i riferimenti a fatti di cronaca, ritengo siano una scorciatoia suonare intellettuali il primo ed un’escamotage per provocare e stupire i secondi. Battisti credo sia un patrimonio a cui i confini nazionali stiano stretti, ma anche Leo Ferré, Battiato, Endrigo. Però non mi limiterei agli italiani, soprattutto per quanto riguarda la musica: sono affascinato dalle atmosfere oniriche e rockeggianti di artisti come Pink Floyd, David Bowie, Manic Street Preachers, più recentemente My Morning Jacket, Placebo.

Quali altri artisti (musicali e non) ti sono di ispirazione? Ascolti anche qualcosa di completamente diverso? Se sì, come influisce e confluisce nelle tue composizioni?

Musicalmente parlando non ho un genere di riferimento, anzi: non capisco perché nella musica ancora viga la tendenza per cui si debba per forza appartenere ad un genere, ed essere etichettato come esponente dello stesso, pena l’accusa di tradimento o di immaturità; nelle arti figurative per fortuna non è così, nessuno ha da sindacare per il periodo blu di Picasso o per i thriller di Jordan Peele. Credo che questa battaglia in nome dell’eclettismo espressivo abbia la sua rappresentazione nel mio album, in cui convivono generi diversi; non escludo un domani di esplorare sonorità completamente differenti, senza dover cambiare il nome d’arte per non farmi riconoscere: lo stesso vale per i miei gusti musicali, mi hanno emozionato le sinfonie di Beethoven come alcuni brani di Marylin Manson; recentemente ho scoperto il reggae, il country americano e ho ascoltato anche molta musica elettronica, oltre che ai già citati cantautori. Al di fuori della musica, devo molto al movimento del simbolismo, declinato nelle varie forme d’arte, nel suo mostrare la connessione tra soggettivo e oggettivo: ricordo ancora di essermi emozionato per la prima volta davanti ad un dipinto, alla Galleria nazionale di Praga, davanti all’ ”enfant endormi” di Gauguin. Amo il teatro di Bene, di Antonio Rezza, e anche nel cinema vengo colpito dai simboli, penso al cuore d’ami ne ”L’Isola” di Kim Ki-duk.

Marco Tresca
marco.cippio.tresca@gmail.com
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Pubblicato il 04 Settembre 2024
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