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“Non so se posso dirlo”: titubanza e omertà emergono nel processo per il metodo mafioso a Nord di Varese

L'Alto Varesotto diviso a spicchi per esercitare il potere servendosi del “metodo mafioso“. La capanna dei “meeting“ e la ritrosia dei cittadini a parlare con le forze dell'ordine che indagavano

Generico 02 Dec 2024

Il Nord della provincia di Varese diviso in quattro “spicchi“ che comprendono il territorio dalle coste del Lago Maggiore a quelle del lago di Lugano con aderenze a famiglie di mafia (Giampà-Ferrazzo) e di camorra (Vannella-Grassi) per controllare traffici illeciti, e in maniera violenta anche gli interessi del gruppo.

Sarebbe sbagliato parlare di “affiliati“ perché le 15 persone a processo – per un rosario di reati che va dall’estorsione alla minaccia passando per le lesioni aggravate, la violenza privata, il danneggiamento e il traffico di droga – non è l’associazione mafiosa ma di aver agito con “metodo“ mafioso, aggravante contestata proprio per i modi di fare. Per via di quelle contiguità con i nomi delle famiglie che contano, in Calabria come in Capanna.

Si è aperto con queste conferme circa le ipotesi accusatorie già emerse da una prima lettura delle carte processuali il processo che dinanzi al Collegio di Varese vede l’accusa sostenuta da un pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Milano (Giovanni Tarzia) e da uno stuolo di legali per le difese degli imputati, in gran parte in aula come loro diritto.

A parlare nell’udienza di martedì, la prima dopo le eccezioni di procedibilità sollevate in precedenza dalle difese, sono stati i testi dell’accusa vale a dire gli operanti dei carabinieri – reparto operativo nucleo investigativo di Varese – che hanno svelato poco alla volta il contenuto delle loro indagini partite dal termometro bollente di quanto stava avvenendo sul territorio, vale a dire una raffica di incendi fra il 2014,15, 16 nella zona che va da Lavena Ponte Tresa a Marchirolo.

Auto, furgoni e macchine che hanno cominciato inspiegabilmente a venire incendiate. Difficoltà nel risalire alle mani responsabili non per carenze investigative ma per l’atteggiamento iniziale e quasi omertoso dei soggetti a cui i militari chiedevo informazioni, atteggiamento che si è poi ripetuto una volta che le indagini progredivano verso la chiusura del cerchio previo ascolto con svariati mezzi tecnologici.

Cioè l’indagine attuale è partita dell’inchiesta “Nerone” proprio da quelle raffiche di incendi a titolo intimidatorio ed estorsivo che hanno portato la Procura a ordinare le intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali: ricettori puntati all’esterno di una pasticceria in Valmarchirolo, nelle auto degli indagati, nelle loro case, nei ristoranti dove andavano a pranzo o a cena fuori dai bar della Valcuvia e persino nel capanno in legno che uno dei soggetti di spicco dell’indagine prima e del processo poi utilizzava per i meeting, gli incontri con conoscenti e amici con lo scopo di fare il punto.

E proprio nel controinterrogatorio dell’avvocato Corrado Viazzo, difensore delle figura di spicco dell’indagine, è emerso con chiarezza come le accuse portino ad identificare con precisione le aree di competenza dei quattro gruppi a cui si riferivano grosso modo le attività estorsive e i taglieggiamenti compiuti a Nord, mentre lo spaccio di droga e sostanze veniva lasciato a chi operava al Sud dell’area in questione che si colloca all’incirca fra Valcuvia e Lago Maggiore.

Particolarmente toccante il racconto di uno dei carabinieri sentito nel corso del dibattimento: «A fronte di quanto emerso nelle intercettazioni, chiamavamo alcuni soggetti, che peraltro non avevano sporto denuncia, per chiedere loro conto di alcune delle vicende emerse. Ci rispondevano con titubanza, omertà. Si esprimevano con frasi come “non so se posso dirlo”, oppure “questo non lo dico”».

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it
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Pubblicato il 03 Dicembre 2024
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