Giorgio Bogni di Sesto e quella febbre che regala emozioni: vita e poesia di un cercatore d’oro
«Cercare l’oro è davvero una febbre, una febbre bella, appassionante». La storia di un cercatore sestese che conosce il segreto per parlare con i sassi
In pochi guardano una pietra e ci trovano vita. Eppure, Giorgio Bogni ci riesce: un sasso non è muto, ma storia che parla. Ha uno sguardo che si accende, il Bogni: al primo bagliore addirittura gli si illumina lo sguardo e sorride, come se la pietra o la pepita gli avesse rivelato qualcosa di magico. È un uomo di mezza età solo quando è obbligato a esserlo: in fila alle poste, dal commercialista, al supermercato. Per il resto è come un Peter Pan, dentro a un mondo che vede solo lui. L’isola che non c’è, in fondo, può comparire da un momento all’altro, in fondo a un piatto immerso nel fiume, con un luccicare di vita unico, che solo una pagliuzza o una pepita d’oro possiedono. «Cercare l’oro è davvero una febbre, una febbre bella, appassionante», spiega Giorgio mostrando la sua collezione. Mostra le sue pepite e le guarda una per una: ad ognuna ha dato un nome, ad ogni nome è legata un’avventura vissuta tra valli e torrenti di mezza Italia. Ed è tutto un luccicare, di pietre e di sguardi.
Legge le pietre, quasi parla con loro…
Giorgio Bogni vive da sempre a Sesto Calende. E in riva al Ticino lavora, nella sua bottega che manda avanti con la moglie Rossana: «In realtà, io non ho mai lavorato – ci scherza sopra -, perché ho avuto la fortuna di riuscire a trasformare in un lavoro quel che più mi piaceva. Vivo dentro la mia passione». Se non lavora, ma si diverte, non significa che il suo percorso non sia stato molto lungo e faticoso. Oggi è anche diventato un volto televisivo, dopo essere stato tra i protagonisti di “Monte Rosa, la miniera scomparsa”, una serie tivù per Dmax che ha avuto un buon successo. La storia però è cominciata cinquant’anni fa, quando era un bambino: «Eh sì, l’avventura, se così si può dire, ebbe inizio negli anni Settanta, quando un bel giorno mio padre mi portò in gita sugli Appennini con dei suoi amici appassionati di minerali. In una vallata della Liguria, quella volta trovai il mio primo minerale: un granato, ovvero un pezzo di essonite. Io ero un bambino e il mio ritrovamento stupì il resto del gruppo: ci fu anche chi mi offrì dei soldi, una cifra importante allora, per avere quella pietra. Ma non c’era prezzo in grado di convincermi. Oggi quella pietra è ancora nella mia collezione, tra i ricordi più belli, perché fu da quella volta che sbocciò la passione della mia vita».
Il papà operaio in vetreria e lui con un futuro tutto da costruire che, per gran parte dei ragazzi di Sesto Calende voleva dire puntare a costruire aeroplani, vivendo a due passi dalla Siai Marchetti: «Studiai anche io da perito aeronautico, ma quando si trattò di scegliere cosa fare dopo, decisi di iscrivermi all’università, a geologia». Il cuore, dunque, ebbe la meglio sulla ragione. Oggi è un esperto gemmologo, studia e lavora con rigore, ma, detto alla sua maniera, suona in un altro modo: «Ho deciso di collezionare minerali per lavoro. In bottega c’è la mia collezione temporanea».
I segreti del cercatore d’oro sono tre “C”: conoscenza, costanza e…
Fin qui, quello di Giorgio Bogni è un percorso di passione genuina, amore, fatica anche condivisa con la moglie Rossana. Poi è arrivata la febbre, variabile irrazionale a scompaginare la trama di una storia che sembra fuori dal tempo. Febbre dell’oro, la stessa che avevano i pionieri in America e non la capisci veramente, se non l’hai mai avuta. Sì, in fondo è la stessa dei tempi del Klondike, ma senza l’illusione di diventare ricchi: solo un richiamo selvaggio, un magnetismo che porta i febbricitanti a sfidare lealmente la natura con l’idea di conquistare la pagliuzza o la pepita rimasta nascosta per milioni di anni fino a quel lampo, quel luccicare improvviso sul fondo di un piatto, unica arma ammessa sulla riva di un fiume, ovvero vita che scorre a valle. «La febbre dell’oro mi ha contagiato circa quindici anni fa e non avevo idea di cosa fosse. Cercavo qualcosa da vendere a chilometro zero». E tra il fiume e l’oro ha trovato un maestro, Giuseppe Carenzo, poca teoria, tanta pratica: «Ho imparato osservandolo e i consigli sono stati pochi ma buoni: in primo luogo bisogna imparare a trovare l’oro dove sicuramente c’è, poi nei corsi d’acqua dove potrebbe esserci». Tradotto in concreto, si comincia dallo studio: «Bisogna studiare, cercare negli archivi, andare sui libri, sui testi e spulciare gli appunti di chi ha cercato l’oro prima di te, anche qualche secolo fa». Dai testi, alla natura, osservando e studiando l’ambiente, alla ricerca del posto giusti in cui immergere gli stivali nell’acqua e cominciare a scavare e a setacciare: «Ogni fiume è una sfida, io mi godo davvero il contatto con l’acqua, l’acqua è vita. E l’oro è timido». Timido, ma seducente. Incorruttibile, ma in grado di corrompere anche gli insospettabili: «All’inizio lo cercavo per venderlo, ora c’è un rapporto intimo con le mie scoperte. Ogni pepita rappresenta una gioia, un’emozione, una storia. E la febbre dell’oro mi permette di nutrire l’anima attraverso le emozioni».
Dal Monte Rosa all’Arnetta, la febbre dell’oro non conosce limiti
Una collezione sempre più vasta è dunque, prima che un tesoro, una raccolta di storie ed emozioni, tanto che Giorgio Bogni ha dato un nome a ogni pepita ritrovata. A ogni pepita corrisponde un’avventura: «Non solo nei miei amati fiumi, ora anche in giro per il mondo. Ho collezionato ritrovamenti in settanta tra fiumi e torrenti che ho esplorato in sette Paesi e due continenti. Sono reduce anche da una recente trasferta in Sudafrica, dove ho partecipato sì ai Campionati mondiali dei cercatori d’oro, ma soprattutto ho vissuto un’esperienza indimenticabile. E laggiù ho visto anche l’altra ricerca dell’oro, quella dei disperati, spesso giovanissimi schiavi volontari». La sua ricerca dell’oro, invece, non è questione di sopravvivenza, ma di poesia: «L’oro che trovo non lo rivendo, le mie pepite restano qui con me a farmi emozionare, ricordare, raccontare. Le darò a mia figlia un giorno e deciderà poi lei cosa farne». I suoi “amati” fiumi sono soprattutto quelli che nascono dal monte Rosa, che scavano rocce e valli e scendono nell’Ossola: «La Valle Antrona e la Valle Anzasca sono molto interessanti, anche dal punto di vista naturalistico, andare a cercare l’oro in quei luoghi è un’esperienza molto bella di contatto con la natura incontaminata».
L’Ossola ha avuto una sua età dell’oro, in effetti, antiche miniere lo testimoniano ancora oggi e così anche diversi libri di fine Ottocento lo confermano. Le sfide hanno portato Giorgio Bogni a osare anche nei fiumi del Varesotto: «Ho girato tutta la provincia, ho cercato in tutti i corsi d’acqua. E ho trovato l’oro persino nell’alveo dell’Arnetta e nello Strona, per citare corsi d’acqua che purtroppo non sono più pulitissimi». La qualità delle nostre acque è un problema che Giorgio ha toccato con mano e su cui sembra esserci scarsa attenzione: «L’acqua è vita, è fondamentale per noi esseri viventi e purificare le acque reflue dovrebbe essere una priorità. Purtroppo, non sembra, si continua a inquinare purtroppo…». Guarda e riguarda le sue pepite, grandi e piccole, le sue pagliuzze dentro a piccole ampolle. Osserva e pensa: alla fatica di giornate infinite e alla magia di quel luccichìo nell’acqua che ha permesso a Giorgio di mettere in bacheca non soltanto una pietra preziosa, ma anche una storia ogni volta diversa. I segreti di un cercatore d’oro? Impossibile che te li dica un cercatore d’oro, anche se il Bogni si presta volentieri a spiegare, istruire o, quanto meno a incuriosire. «I segreti, in realtà, sono abbastanza semplici: sono tre “C”. Conoscenza, costanza e culo». La conoscenza passa dallo studio sui testi fino all’uso corretto degli strumenti, che nella ricerca dell’oro sono piuttosto semplici: «Bastano un piatto che si trova in commercio a una cifra molto abbordabile, un setaccio, un martelletto da geologo, guanti e stivali». La costanza quasi sempre fa la differenza: «Non bisogna fermarsi, bisogna imparare a insistere e capire qual è il posto migliore per la ricerca. E anche l’abilità nell’utilizzare gli strumenti la acquisisci se hai costanza».
A ogni pepita corrispondono un nome e una storia
Apre le sue teche, apre il suo cuore, Giorgio Bogni guarda quelle pepite, invita a toccarle: «Stai toccando oro che ha tre milioni di anni, non è una cosa meravigliosa? E qui da noi abbiamo minerali giovani, in confronto per esempio con quelli del Sudafrica dove trovi pepite che arrivano dal disgregarsi di rocce che hanno tre miliardi di anni». Legge le rocce, o come suggerisce sua moglie Rossana, Giorgio Bogni dialoga con loro, in una lingua che noi non riusciamo a percepire. E soltanto per questo affascina, te lo immagini dentro a una vallata, sotto al suo cappello, a inseguire una poesia che una roccia decide di liberare in un fiume dopo milioni di anni, un luccichio che emerge dalla storia della nostra terra. L’oro lo trovi se ti abitui a cambiare spesso il punto di vista: già questo è un insegnamento per la vita di ogni giorno, anche per quelli per cui il massimo della ricerca è quella del parcheggio in centro. E il futuro? Ogni cercatore d’oro ha una febbre cronica, che non passa mai, alla ricerca della pepita gigante… «Se è per sognare, meglio farlo in grande: diventare proprietario di una miniera, questo è il mio sogno. Ottenere una concessione mineraria e acquisire una miniera. Non è impossibile, ma sì, non è facile». La prossima pepita, grande o piccola, è lì che aspetta, “timida”, come dice lui: Giorgio Bogni partirà all’alba e risalirà quel fiume che la custodisce. Forse sì, anche stavolta sarà l’oro a trovare lui, con una storia in più da aggiungere alla collezione.
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