«Non abbiamo nemmeno un posto dove ricordare nonno Carlo»
Intervista al nipote del maratoneta di Origgio che nel 1896 andò a piedi da Milano ad Atene per partecipare alla prima edizione dei giochi olimpici, ma a cui fu impedito di correre
Giancarlo Airoldi è il nipote diretto di Carlo Airoldi, colui che nel 1896 compì una grande impresa: da Milano ad Atene a Piedi per vincere la maratona delle prime Olimpiadi moderne. Non aveva i soldi per pagarsi il viaggio e lui, corridore per passione, decise di andarci a piedi. Dopo un mese di viaggio, al suo arrivo ad Atene, il Comitato Olimpico gli disse che non avrebbe potuto partecipare alla competizione. Motivo: dopo la vittoria della Milano-Barcellona, nel 1895, durante la quale si era persino portato sulle spalle per qualche chilometro il secondo classificato perché colpito da crampi, aveva accettato poche lire per pagarsi il viaggio di ritorno a Milano in treno. Per poco Carlo Airoldi, nato a Origgio e all’epoca dei fatti 26enne, non entrò nella storia sportiva.
Il nipote Giancarlo, quasi 80enne, vive anche lui nel Varesotto, a Luino e tutt’oggi conserva qualche foto e soprattutto un piccolo quaderno con alcuni ritagli di giornale su quella folle impresa. «Legga la prima pagina – dice riferendosi al quaderno – racchiude tutto il significato della vita di mio nonno. Non so da dove arrivi la frase, ma è significativa». Sulla prima pagina è infatti scritto: “…alla fonte del suo esempio solo può attingere chi chiede allo sport l’equilibrio fisico per accedere alle virtù morali che donano purezza allo spirito…”. «Cosa ci sia di vero o meno nella sua vita, nessuno può confermarlo – racconta Giancarlo -. L’unica cosa che c’è di vero è questa famosa trasferta ad Atene. Dopo la quale è stato escluso ingiustamente»
Ha conosciuto suo nonno?
«No, assolutamente. Purtroppo è morto qualche anno prima che io nascessi».
A lei chi raccontava questa storia?
«Mio padre. Tra i sei fratelli era il più anziano di tutti i figli di nonno Carlo ed è quello che ha vissuto di più con lui. Diceva che era un tipo piuttosto rude e severo: una volta erano tutti così, uomini tutti d’un pezzo, che mostravano poco i sentimenti. Mi raccontava che la passione del nonno era la corsa, che si allenava tutti i giorni. Aveva un grosso macigno con dei maniglioni e tutti giorni faceva una sorta di sollevamento pesi per tenersi in forma, anche in età avanzata».
E del viaggio ad Atene?
«Non ricordo molto, purtroppo ero solo un ragazzino e mio padre è già un po’ che è mancato. La cose certe sono quelle raccontate dai giornali di allora: il viaggio, l’esclusione, la delusione. Ma non credo con amarezza. Da quel che mi raccontava mio padre, il nonno era un vero sportivo. Quando a una persona piace fare una cosa, che sia il corridore, che sia il giornalista, non vede fatiche, né sacrifici, non trova difficoltà. Se poi una persona si fa da Milano ad Atene a piedi, penso l’abbia anche fatto perché sentiva nel cuore di marciare, di andare e vivere quell’avventura. Visse cercando sempre di essere felice».
Ma di quello che faceva, come si comportava suo nonno, non sa niente?
«Ci sono molte storie come quella del masso di granito che sollevava tutte le mattine. Ad esempio, quando eravamo piccoli, ci raccontavano che il nonno rompeva in una volta sola un mazzo da 40 carte, oppure che alla mattina si mangiava qualcosa come 24 uova. Ma sono storie che certe volte non vorrei nemmeno dire perché sembrano cose da circo. Alla fine dell’800 la filosofia di vita era quella: l’esagerazione».
Di Carlo Airoldi oggi cosa rimane?
«Niente. Ogni quattro anni, quando ci sono le Olimpiadi, qualcuno si ricorda di quell’impresa. Ma poi, a volte, il suo nome compare solo in qualche riga di un articolo. Niente di più. Oggi non abbiamo nemmeno un posto dove ricordarlo. Quando fu riesumato non c’erano soldi e i suoi resti furono messi in un ossario comune. Una volta funzionava così e non è passato nemmeno moltissimo tempo. Vedendo quello che oggi viene messo in piedi per ogni minima avventura di una persona, mi rattrista pensare che mio nonno, il primo italiano che cercò di partecipare alle olimpiadi, non viene ricordato in nessuna maniera. Di tutte le medaglie e delle cose che ha vinto non è rimasto più nulla: la nostra famiglia fu costretta a vendere tutto durante la seconda guerra mondiale. Ci comprammo da mangiare. Oggi, di lui, ci rimane un attestato di partecipazione a una gara del 1897, due fotografie e qualche ritaglio di giornale. Nient’altro».
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