Quel “funerale” in mezzo al lago celebrato da Piero Chiara
Anna Brovelli racconta la sua amicizia con lo scrittore di Luino, le riprese del film "La stanza del vescovo" e gli incontri con Liala e Dino Risi
«Ci davamo del lei, io lo chiamavo “professore”. Allora Piero Chiara era già famoso ma era molto umile, cortese. Un giorno mi disse, scriverò un libro sulle nostre chiacchierate, ma poi si ammalò». Anna Brovelli vive ad Angera, è una donna di lago e lontano dal lago non ci sa stare. E forse è proprio questo amore tangibile che l’ha resa così cara allo scrittore di Luino. Il loro primo incontro è avvenuto all’inizio degli anni Settanta: lei gestiva il cantiere nautico portando avanti il mestiere del padre, lui cercava un mezzo per uscire sul lago «Piero Chiara – racconta – era venuto a Ranco e si era rivolto a me, quando ancora avevo il cantiere, a cercare una barca. Io gliela procurai. Era una barca capiente a vela e motore, un Motorsailer».
Le capitava di incontrarlo? Usciva spesso in barca?
«Sì e io ero un po’ il suo “marinaio”. Lui non usciva da solo, tranne che per corti tragitti; mi chiamava la sera per uscire il mattino dopo. E così andavamo a Laveno, a Cannero ma anche più distante, verso la Svizzera».
Di cosa parlavate quando eravate insieme?
«Mi raccontava le storie dei personaggi che conosceva. Oppure chi abitava o aveva abitato le ville che si affacciano sul lago Maggiore, conosceva tanti aneddoti che mi erano nuovi. Ma mi parlava anche dei libri che stava scrivendo. In quel periodo stava terminando “La stanza del vescovo” e iniziando “Il cappotto di Astrakan”».
Trascorreva molto tempo a Ranco?
«Sì, oltre alle uscite in barca, amava fermarsi in cantiere. Ha iniziato a scrivere anche lì, sotto gli alberi. Lui lo chiamava “il suo pensatoio” perchè diceva di trovare ispirazione. Finché un giorno mi chiamò da Roma, dove era a vendere i diritti cinematografici per il film di “La stanza del vescovo”. Mi chiese se ero disposta a collaborare con la troupe come consulente per la preparazione e l’allestimento delle barche: la Tinca e la Lady. Io accettai, chiaramente. Poi arrivano gli attori, i tecnici e il regista Dino Risi che mi assunse per quattro mesi. Avevano bisogno un aiuto logistico ma anche per preparare le due barche citate nel libro: le avevo procurate io. La Tinca, era una scialuppa di salvataggio dell’Angelina Lauro mentre la Lady, uno Sloop del 1898, una bellissima barca. Facevo inoltre da appoggio con il mio motoscafo per gli spostamenti».
Com’è stato collaborare con gli attori e con la squadra di Dino Risi?
«L’ambiente era molto serio e gli attori lavoravano con grande impegno. Ricordo che alle quattro del mattino erano già tutti in sala trucco. Si decideva se girare gli esterni o gli interni in base alla luce. Il tempo infatti era la variabile che decideva il programma della giornata. Le riprese sono cominciate l’11 settembre e sono finite il 23 di dicembre. C’erano già le montagne innevate e gli attori erano forti: dovevano girare delle scene in costume, nonostante il freddo di quella stagione».
Di quelle giornate c’è qualcosa che ricorda in particolare?
«Di momenti speciali ce ne sono molti ma uno è stato davvero toccante: il funerale della barca. Ossia la barca di un amico di Chiara che era stata costruita in casa ma che non era mai stata varata. Costui, in punto di morte, come testamento spirituale, chiese al professore di farla affondare davanti ai castelli di Cannero. Così, come promesso, andammo in mezzo al lago a Castelveccana. Ad un tratto arrivò un temporale fortissimo e la barca che trainavamo cominciò a imbarcare acqua. Dissi, “Professore è meglio se rientriamo”, anche perché ero davvero preoccupata, dovevamo sganciarla altrimenti avremmo rischiato grosso. Allora presi un coltello e tagliai la cima. La barca si inabissò di prua. Lui la guardò affondare, si alzò in piedi e cominciò a raccontare un aneddoto dell’amico, fece una specie di sermone. Fu un momento molto toccante. Sulla barca eravamo io Chiara e sua moglie».
Quando usciva in barca era solo?
«No, spesso aveva degli ospiti. Un giorno con lui c’era anche Liala, la famosa scrittrice, siamo andati a fare un giro sul lago e lei era molto felice. Quando scese dalla barca mi disse “Oggi ho fatto un’orgia di suoni di luci e di colori”. Disse proprio così, questo me lo ricordo benissimo».
C’era qualche luogo del Basso Verbano che Chiara amava particolarmente?
«A lui piaceva tutto il lago. Ma amava soprattutto Santa Caterina, era la prima tappa. E poi l’Isola dei Pescatori dove si andava per pranzo. Un giorno mi portò al cimitero e mi disse questo è il punto dove verrò sepolto… poi però non fu sepolto lì. I funerali partivano allora da Stresa, con le barche dei pescatori che venivano addobbate con dei drappi neri e la cerimonia si teneva nella chiesetta dell’isola».
Si è mai riconosciuta in qualche personaggio dei suoi libri?
«No, non mi sembra. Anche se mi disse che voleva scrivere qualcosa su di me… Comunque nei suoi libri c’è qualcosa di speciale oltre ai suoi mitici personaggi: quando li leggo mi sembra di rivivere proprio quelle belle giornate. Lui raccontava sempre qualche storia e parlava proprio con quello stile che lo rendeva unico. Leggere i suoi libri è un po’ come ascoltarlo di nuovo».
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