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Morì sotto i ferri ma il perito dà ragione ai medici

Il caso di una donna marocchina deceduta durante un'operazione al fegato. I consulenti della procura assolvono i dottori ma l'avvocato: "Si dovevano fermare, sottovalutarono il pericolo"

Una donna marocchina morì a Varese dopo un’operazione all’ospedale di Luino per una cisti al fegato. Da quella tragedia è nata un’indagine della procura di Varese, che ha coinvolto quattro medici, ma che sta per andare ad archiviazione. I due periti interpellati hanno escluso nelle conclusioni che i medici abbiano sbagliato qualcosa, ma l’avvocato della donna, Andrea Boni, è di tutt’altra opinione e ha presentato una richiesta di opposizione. E’ inutile giraci troppo intorno: «Era una donna che non parlava italiano, gente povera proveniente dalle campagne del Marocco e che abitava a Maccagno, il mio sospetto è che ci sia stata a una sottovalutazione, anche per la condizione di questa gente». Per suffragare questa tesi, l’avvocato della signora deceduta, Ettadely Saadia, osserva che non si comprende come i due consulenti escludano ressponsabilità penali dei sanitari indagati. L’intervento mortale avvenne il 12 luglio del 2004. La donna aveva una cisti al fegato. Quando i medici videro l’organo dopo il taglio chirurgico scoprirono che le cisti erano numerose e la situazione difficoltosa. Scrive il perito, che l’intervento programmato prevedeva l’esecuzione di una pericistectomia, ma non venne portato a termine perché sopravvennero delle complicanze: in particolare una o più lesioni della parete della vena cava.
«Causa le importanti aderenze non si riuscì a controllare adeguatamante il lobo destro provocando una lesione diaframmatica destra, che venne suturata. Si decise a quel punto di procedere comunque con la pericistectmoia. Il chirurgo ritenne quindi che esistessero ancora le condizioni per un’asportazione completa della cisti in relativa sicurezza».
L’intervento invece andò male e la donna morì per chock emorragico dopo un disperato tentativi di salvarla a Varese.
L’avvocato contesta la decisione di andare avanti nell’operazione dopo la prima lesione. Contesta altresì la mancanza di una adeguata informazione ai parenti, obbligatoria per legge, forse viziata anche dalla difficoltà di comunicazione.
I consulenti affermano che durante l’intervento i chirurghi ebbero subito contezza di un primo quadro difficoltoso per le aderenze dovute a un precedente intervento e che in questo contesto la probabilità di una lesione cavale risultava essere molto alta. In un altro passaggio della relazione spiegano che vi era una voluminosa lesione cistica che comprimeva la vena cava e quest’ultima era a tratti indistinguibile. I periti concludono, in sostanza, che i medici hanno correttamente valutato la situazione e non hanno colpe se hanno proseguito l’intervento. Mentre la famiglia ritiene che «non si comprende per quale ragione, dato l’elevato grado di rischio al quale stavano sottoponendo la paziente, i sanitari non hanno ritenuto opportuno sospendere l’intervento». 

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Pubblicato il 30 Marzo 2011
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