“Arcigay si batte per i diritti di tutti e per la comunità LGBT”
Yvan Molinari, un ragazzo di 24 anni volontario dell'associazione, racconta cosa significa appartenere al movimento LGBT nella nostra comunità
Quando si parla di Arcigay Varese, la prima cosa a cui si pensa è il Gay Pride. In realtà si tratta di questo e molto, molto di più. Yvan Molinari, un ragazzo di 24 anni volontario dell’associazione, ci ha raccontato cosa significa appartenere al movimento LGBT nella nostra città.
Come e quando hai deciso di unirti ad Arcigay Varese e di cosa ti occupi all’interno dell’associazione?
«Nel 2017 ho preso la decisione di collaborare come volontario per ricambiare in qualche modo l’aiuto che era stato dato a me dall’associazione stessa. All’inizio mi occupavo dei banchetti informativi e del volantinaggio. Con il passare del tempo mi sono sentito sempre più coinvolto, fino a quando sono diventato corresponsabile dell’area tematica trans. Una volta al mese riuniamo il gruppo di auto mutuo aiuto per persone Transgender e Gender Nonconforming. Questo gruppo è fondamentale: quando una persona si scopre transessuale, pensa sempre di essere sola. Scoprire che nella tua stessa città ci sono altre persone come te, aiuta. Un gruppo di aiuto come questo, dove trovarsi tutti insieme per condividere esperienze e dubbi e dove potersi aiutare e supportare reciprocamente, a Varese mancava. Oltre a questo, organizziamo molti eventi, soprattutto in giornate con ricorrenze storiche particolari, organizziamo dibattiti, banchetti informativi e volantinaggio, come ad esempio a fine novembre per la giornata nazionale in memoria delle vittime di transfobia».
Come state vivendo la questione delle restrizioni dovute all’emergenza coronavirus?
«Abbiamo dovuto riorganizzarci. Tutti gli eventi che avremmo dovuto tenere da marzo 2020 in poi siamo stati costretti ad annullarli e reinventarli utilizzando le piattaforme social. A ottobre ci è stato possibile organizzare una manifestazione a sostegno della legge Zan – proposta di legge contro l’omofobia e la misoginia – ma purtroppo con le nuove restrizioni che si sono aggiunte nelle ultime settimane dovremo di nuovo affidarci ai social organizzando eventi online. Il fatto di doverci affidare alla tecnologia è un’arma a doppio taglio necessaria: per quanto ci permetta di continuare a riunirci, è comunque una realtà complicata, soprattutto per i gruppi di auto mutuo aiuto, dove il ritrovarsi fisicamente, avere contatto umano diretto, ha un impatto molto più ampio e mirato».
Cosa significa per te far parte della comunità LGBT a Varese?
«Le cose sono molto cambiate nel corso del tempo. All’inizio ero molto spaventato, pensavo di appartenere ad un ambiente poco accogliente, freddo, apparentemente molto chiuso. Ricordo che il giorno prima del primo Pride di Varese i militanti di Do.Ra avevano imbrattato alcuni manifesti e avevano creato molta polemica. Era il 2016 e alla manifestazione non venne molta gente, si respirava tensione e paura di manifestare. Ma per fortuna è andata bene. Ancora oggi ad ogni nostro evento, anche solo per i banchetti informativi, siamo sempre accompagnati da una scorta della polizia.
Per quanto riguarda la vita quotidiana, posso raccontarti la mia esperienza universitaria. Io ho frequentato l’Insubria. Ad ogni esame ero “costretto” al coming out, perché naturalmente i miei documenti non riportavano il nome che mi ero scelto in quanto uomo. Quando mi sono iscritto all’università avrei voluto richiedere un tesserino particolare sul quale viene scritto il tuo nome, quello che ti sei scelto tu, in modo tale da non avere ogni volta questo tipo di problema. Purtroppo, quando ho iniziato l’università io, nel 2015, questa cosa all’Insubria ancora non esisteva. Ed è qui che grazie ad Arcigay ed un lavoro durato tre anni, il senato accademico ha finalmente approvato la cosa.
C’è anche da dire che negli ultimi anni abbiamo trovato un’amministrazione comunale molto favorevole e aperta alle nostre iniziative. Con Fontana sindaco non ci era stato consentito creare l’evento del Pride, nonostante la richiesta fosse stata fatta numerose volte. Ora, con questo clima politico positivo, siamo stati protagonisti di grandi cambiamenti e salti di qualità».
Perché in Italia esiste una così grande intolleranza e ignoranza che rende difficile farsi ascoltare nella lotta ai diritti?
«A mio parere è più che altro una questione politica: una persona può sviluppare da sé un ideale sbagliato, ma se si sente spalleggiata da un movimento politico forte, che rilascia dichiarazioni, contro i diritti LGBT come contro qualunque altra cosa, allora quell’individuo si sente non solo giustificato ma anche sostenuto nel perseguire questo tipo di idee. E questo si traduce in una buona percentuale della popolazione nazionale. Se la classe politica tutta, affermasse che i diritti sono diritti anche per le persone della comunità LGBT e che non vanno assolutamente toccati o contestati, le persone piano piano riuscirebbero a cambiare idea».
Cosa potrebbe fare di più Varese per Arcigay e i giovani che ne fanno parte?
«Arcigay ha prima di tutto bisogno di uno spazio fisico che sia tutto suo dove potersi riunire. La nostra attuale sede, oltre ad essere molto piccola e limitante, è anche condivisa con altre due associazioni. Noi vogliamo raggiungere i giovani, e per questo vogliamo poter entrare nelle scuole. Fino ad ora non ci è stato possibile, ma è proprio nelle scuole che si possono compiere i primi passi per educare i giovani alla nostra realtà e a ciò che oggi giorno dovrebbe già essere considerata normalità. Una delle cose che è davvero importante ottenere, è visibilità sì, ma non solo attraverso i social: noi vogliamo stare in mezzo alla gente, è fondamentale il contatto. Dietro ad uno schermo possono essere tutti leoni da tastiera, ma quando guardi una persona negli occhi e ci parli è molto più facile che si crei un dialogo.
Voglio anche aggiungere, rivolgendomi direttamente ai giovani, che siamo pochi. Lo vedo anche in altre associazioni: i giovani sono pochi e si interessano poco. Ma questo è il mondo che erediteremo, ognuno di noi deve fare qualcosa per renderlo migliore. Fare qualcosa, anche di piccolo, è fondamentale: i social, se usati come si deve, hanno un potere enorme. Anche solo condividere una notizia seria tra le tante stupidaggini che propone il web, può essere qualcosa. L’associazione Arcigay ha un gruppo giovani, composto di ragazzi tra i 16 e i 30 anni, ma a Varese ancora non esiste. Per questo il mio appello è a tutti i giovani interessati ma che magari non si avvicinano all’associazione perché magari si sentono ignoranti o si vergognano: ogni volontario viene formato prima di iniziare a lavorare per l’associazione. Più siamo meglio è».
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