“Potremo mai noi perdonare?” La memoria rivive nei diari ritrovati
Testimonianze di militari internati, riordinate e pubblicate dai famigliari. Quelle di Manlio Della Chiesa e Rosito Zeni sono due storie diverse ma entrambe importanti per ricordare la disumanità della guerra
Pagine di diario, stralci di documenti ormai sbiaditi, vecchi disegni abbozzati sulla carta. E poi storie di esistenze che si sono intrecciate durante la prigionia, amicizie e ricordi che non sono mai sfumati, nemmeno con il passare del tempo. Ma ora che i protagonisti che li hanno vissuti non ci sono più, sono i famigliari ad aver ereditato l’incarico della testimonianza.
Nel Giorno della Memoria, in cui si commemorano le vittime della Shoah, trova spazio anche il ricordo degli italiani deportati e rinchiusi nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.
Angera e Sesto Calende, grazie al prezioso lavoro di alcuni cittadini, possono oggi testimoniare due – anche se in realtà dai racconti ne emergono molti di più – nuove storie di internati militari italiani. Esperienze, seppur molto diverse tra loro, monito di quali conseguenze può portare la guerra: da un lato troviamo, la brutalità della prigionia nei lager tedeschi volti ad annientare il nemico e il diverso, dall’altro la sofferenza e le privazioni patite nei campi di internamento degli alleati.
La prima è quella condivisa dalla famiglia Della Chiesa di Angera, che ha pubblicato nel 2019, il volume “Ricordi di prigionia 1943-45“, edito da Mimesis, per la collana diretta da Giuseppe Armocida.
Il libricino è la pubblicazione del diario di Manlio Della Chiesa, angerese molto conosciuto nella cittadina del Lago Maggiore, scomparso nel 2014. L’8 settembre del 1943 fu catturato e fatto prigioniero dai soldati tedeschi mentre si trovava in Francia, fu deportato in Polonia e in Germania.
Nelle pagine del suo diario annotò con precisione quei mesi di sofferenza (“la fame e la sete erano le nostre compagne”), violenza e ingiustizie. Dai suoi pensieri, limpidi e fiduciosi anche nei momenti più difficili, emergono la rabbia e la nostalgia di casa e della famiglia ma si fa strada anche il desiderio di giustizia e di una società costruita su ideali di libertà e uguaglianza.
«Nel dramma – scrive nella prefazione Giuseppe Armocida – maturò in loro una coscienza democratica che si rinforzò nei frangenti pericolosi degli ultimi anni di guerra e li accompagnò al risveglio delle libertà politiche». I “no” di Della Chiesa furono fermi e coraggiosi, la posta in gioco era la sua stessa vita: prima la decisione di non collaborare con i nazisti, pena “essere considerati nemici” con tutto quello che poteva comportare e poi quella di non aderire alla Repubblica Sociale Italiana, pur consapevole che quella scelta avrebbe potuto anticipare la sua liberazione di parecchi mesi.
Il lager di Sandbostel in GermaniaNei suoi scritti torna l’affetto verso le persone care, l’amicizia con Mario Greppi, partigiano, anch’egli angerese e figlio di Antonio che fu il primo sindaco di Milano dopo la Liberazione, il cui ricordo compare spesso nelle pagine del diario. Fino e oltre, la notizia della sua morte per mano dei soldati fascisti. “Apprendo da mamma – scriveva Della Chiesa il 7 ottobre 1944 – della morte di Mario Greppi, non riesco a trattenere le lacrime, ho tanta rabbia da non capire più nulla e non posso fare altro che attendere, ma perché il Signore permette che dei pazzi infieriscano sul tanto tormentato nostro popolo? Mamma mi dice che Mario, dall’alto, perdonerà, potremo mai noi perdonare?“.
Quando fu ucciso Mario Greppi aveva solo 24 anni. “A vent’anni, primavera dell’esistenza, tutte le stagioni sono meravigliose”. Così inizia il racconto della vita di Rosito Zeni recentemente pubblicato da Mario e Stella Varalli, in collaborazione con Elena e Lorenzo Zeni ed Erica Ferraro. “Tra i reticolati a Zonderwater” è la narrazione, in prima persona, del sestese Rosito fatto prigioniero nel grande campo di internamento inglese per militari italiani della Seconda Guerra Mondiale.
Zonderwater, che significa “senza acqua”, si trova in Sud Africa. Lì vennero condotti i prigionieri italiani nel periodo dal ’43 al ’47. Tra loro anche Rosito Zeni di Sesto Calende che molti anni dopo ha voluto mettere nero su bianco quella drammatica esperienza e l’avventuroso viaggio per ritornare a casa.
Negli anni della guerra, si legge nella biografia, “sono diversi i sestesi prigionieri e le madri, alla domenica pomeriggio, si riuniscono a casa di Adele Landoni Furlani, madre di Leonida, anch’egli prigioniero a Zonderwater, per leggere le cartoline ricevute dai figli e recitare il Rosario”.
Rosito Zeni riuscì a tornare nella sua Sesto in riva al Ticino, dopo sei anni. Nei suoi ricordi una narrazione lieve, seppur dolorosa, di quella pagina sofferta della sua vita: i viaggi faticosi sotto il sole africano, la vita nel campo, la sopravvivenza minacciata, i rapporti allacciati con gli altri prigionieri e alcuni momenti di leggerezza come le partite di calcio che permettevano di sfuggire almeno col pensiero e anche se per poco, alla drammaticità di quelle condizioni (A Zonderwater fu prigioniero anche Araldo Caprili che finita la guerra giocò nella Juventus come terzino sinistro).
La vicenda, così come le condizioni dei prigionieri, in questo caso è diversa da quella che viene riportata da Della Chiesa. Ma la privazione della libertà, la paura e la voglia di tornare alle proprie case, sono una costante che ci riporta a riflettere sugli aspetti più disumani dei conflitti.
Alla fine però per ognugno, il sapore della libertà ritrovata: “Un’altra sensazione di sicurezza – conclude Zeni nel suo librto – che può capire solamente colui a cui per tanto tempo è mancata, è quella di avere sopra la tua testa un tetto solido, il tetto di quel dono grande e inestimabile che è la casa, caro, amato e per tanti anni sognato ed agognato tetto di casa mia».
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