Sei anni fa l’arresto di Stefano Binda: “La mia vita da scagionato“
Il 15 gennaio 2016 all’alba la polizia (e le telecamere) fuori dalla villetta di Brebbia. Oggi il ritorno alla vita, fra volontariato e studi. “Ma non ho finito di lottare“
Come ti senti? «Un unicum. Ma ti chiamo dopo la messa».
La risposta flash è una promessa che non viene disattesa, e puntuale fra l’uscita della chiesa e il passaggio per andare a pranzo da amici arriva la risposta.
«Sì, mi sento un unicum, una mosca bianca perché non ho memoria di persone che sono state arrestate a trent’anni dai fatti, giustificando esigenze cautelari che riguardano il pericolo di fuga, la possibilità di reiterare il reato e di inquinare le prove: la verità è che quella mattina venne arrestato un incensurato, disoccupato, senza patente, con faldoni e faldoni di documentazione prelevata dalla propria abitazione».
Quella mattina erano, ieri, sei anni fa. E chi parla in terza persona ha un nome e un cognome ben impresso nei caratteri dei giornali e nelle immagini delle telecamere: Stefano Binda, finito in manette a beneficio di inquadratura il 15 gennaio 2016 accusato di aver ucciso Lidia Macchi, tenuto in carcere fino al 24 luglio 2019 quando, dopo essersi beccato sulla testa un ergastolo in primo grado la corte d’Assise d’appello di Milano ribaltò la sentenza dei giudici di Varese, decisione poi suffragata dalla Cassazione che mise la parola “fine“ su quella vicenda.
«Sì questa data me la ricorderò per sempre, assieme alle altre che hanno contraddistinto la mia vicenda processuale, appunto quella di Milano, che per me è stato il giorno più lungo», iniziato non alle 9, col suono della campanella e l’ingresso dei giudici togati e non, «ma molto prima, verso le 4.30, in cella. Giornata incredibile. Incredibile. Finita con una pizza nella mia casa di Brebbia, a notte fonda, con gli amici» (nella foto, la sera della liberazione dopo la decisione della corte d’Appello di Milano, il 24 luglio 2019).
Oggi Binda ricorda bene, come fossero passati pochi minuti, quegli attimi che vanno dal suono del campanello di casa all’ingresso nell’auto di servizio della squadra mobile con le telecamere ad attendere e a riprendere la scena dell’arresto. «Sì, hanno sbagliato quella mattina. Oggi vivo da uomo libero, ma consapevole degli errori che sono stati fatti. Ed anche per questo sto continuando a combattere».
C’è in corso infatti a Milano, presentata dai legali Sergio Martelli e Patrizia Esposito la procedura di «riparazione per ingiusta detenzione» che potrebbe portare al risarcimento di una somma cospicua, di oltre 300 mila euro.
«Questo sebbene la procura generale che sostenne l’accusa abbia depositato parere negativo», spiega Binda, «un fatto incredibile: la stessa Procura che chiese l’arresto che ingiustamente mi portò in carcere per così tanto tempo oggi sta resistendo alla richiesta di risarcimento. Sì, sto combattendo, ancora, contro tutto questo».
Ma Stefano Binda, 54 anni, sempre residente e Brebbia, oggi che fa? «Studio. Leggo molto. Traduco. E mi dedico al volontariato in due associazioni della zona molto attive e con una rete piuttosto consolidata e strutturata sul territorio. Ero in procinto di gettarmi in un terzo progetto, rivolto al sostegno di soggetti deboli, ma la pandemia mi ha fermato».
Che vita è? «Una vita da scagionato».
Accedi o registrati per commentare questo articolo.
L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.