Dalla cantina del nonno al campo per coltivare la tradizione delle Pesche di Monate
Ad affrontare questa sfida è un gruppo di cinque amici, tutti di Travedona Monate
Riprendere a coltivare i campi abbandonati, trasformare la vecchia cantina del nonno in un laboratorio e ripercorrere la filiera che c’è dietro un barattolo di pesche sciroppate. Una cosa non banale, ancora di più se l’impresa viene fatta a Travedona Monate, comune famoso proprio per le sue varietà di pesche, uniche sul territorio prealpino.
Ad affrontare questa sfida è un gruppo di cinque amici, tutti di Travedùna Munàa, come si dice in dialetto, che nel 2020 ha deciso di rilevare i campi lasciati incolti dagli anziani ed è tornato a prendersi cura di quelle piante oramai trascurate da anni. Sono Stefano Baranzini, Paolo Verti, Stefano Binda, Stefano Corti e Riccardo Franzetti.
«Volevamo portare avanti la tradizione», raccontano quando incontriamo alcuni di loro nel laboratorio che usano per lavorare le pesche, a mano, una per una. «Siamo cresciuti vedendo gli anziani coltivare i campi di pesco. Da ragazzini era normale trovarsi a sbucciare e pulire le pesche, prepararle per l’inscatolamento. Era il nostro lavoretto estivo».
Quando si rendono conto che molte delle vecchie generazioni abbandonano i campi, iniziano ad immaginare di prendere quel posto. E così, dopo qualche ragionamento, si uniscono e iniziano a lavorare la terra, letteralmente. Poi, i primi frutti, la prima estate di raccolta e pulitura, l’inscatolamento in acqua e zucchero.
«Abbiamo iniziato un po’ per gioco, era un tentativo ma abbiamo capito che potevamo farcela. Nella vita di tutti i giorni facciamo tutt’altro», raccontano questi travedonesi che hanno dai 24 ai 47 anni. Raccontano che dalle scrivanie si sono trovati in campagna, sotto il sole, con le forbici per la potatura e i secchi per raccogliere i frutti. «L’estate è il momento in cui si lavora di più. Abbiamo iniziato con 350 piante, vorremmo piantarne altre 150. Abbiamo rilevato due campi in disuso, tra cui uno degli storici Perzicat. Ad insegnarci questo mestiere sono proprio alcuni degli anziani che per anni lo hanno fatto».
L’idea è quella della filiera corta: tutto si produce e si lavora a pochi chilometri di distanza, a mano. Il laboratorio ha pochissimi macchinari: «Lavorare le pesche richiede tempo e fatica, non si può pensare di fare un lavoro più veloce o fatto in modo diverso. Oggi produciamo pesche bianche e gialle, ma vorremo ampliare la produzione anche con altri tipi». Inoltre, dagli scarti delle pesche de Munà, questo il nome che hanno scelto i cinque travedonesi per marchiare il loro prodotto, vengono fatti un liquore e un gin, grazie alla collaborazione con la Rossi D’Angera. Prodotti che, come le pesche, si trovano in alcuni dei negozi e dei ristoranti della zona. E così la tradizione si rinnova.
Il più giovane dei soci, Stefano, dopo averci spiegato tutto il lavoro che c’è dietro la pulitura delle pesche, racconta: «Una tradizione che nasce nel secolo scorso, quando un giovane chef ricevette dal Visconte di Modrone un incarico: fare in modo che le pesche del lago potessero durare per tutto l’inverno. Ad aiutarlo ci pensò Luigi Colombo che mise le pesche in un barattolo di latta». E da quel momento, come dicono i travedonesi: «Non c’è stato Natale senza pesche sciroppate in tavola».
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