L’altra Africa di Francesca Tria: la felicità è, per esempio, costruire una scuola in Kenya
Non importa se non lo sai fare, decisivo è volerlo fare. Cambiare vita o semplicemente costruire una scuola nel cuore dell’Africa: «Che di fatto ti cambia la vita, se prima di allora eri soltanto un’impiegata transfrontaliera»
Non importa se non lo sai fare, decisivo è volerlo fare. Cambiare vita o semplicemente costruire una scuola nel cuore dell’Africa: «Che di fatto ti cambia la vita, se prima di allora eri soltanto un’impiegata transfrontaliera».
Francesca Tria ha uno sguardo pieno di luce, che vien fuori anche nella penombra di un bar di provincia, davanti a un caffè. «Prima l’Africa era vacanza, oggi è casa». La sua casa del cuore non ha più pareti. Per davvero. E così il ronzio del suo alveare, all’ombra del Campo dei Fiori, e il vociare gioioso dei “suoi” bimbi di Gede, nel cuore dell’Africa, non sono che due momenti di vita quotidiana, in due stanze a migliaia di chilometri l’una dall’altra: stanze di una casa ideale, costruita semplicemente abbattendo muri che aveva dentro di sé, dentro a una vita uguale a quella di molte altre donne e mamme, tutte casa, lavoro e week-end, tra il Varesotto e la Svizzera.
«Cominciamo da qui, dalle fondamenta. Fino al tetto». Come un bambino con i mattoncini Lego, Francesca Tria l’ha detto e l’ha fatto. Ha convinto un gruppo di amici coraggiosi e ha costruito una scuola che oggi offre istruzione gratuita a un centinaio di bambini. Ci ha messo più tempo a convincere sua madre che non era uno scherzo: «Non ci voleva credere, poi le ho mostrato le foto». Meraviglioso e naturale, come l’alba che vien su dall’Oceano Indiano, o come il tramonto che affonda nella savana dei Masai.
«Tenace come un capricorno», scherza lei, «ma anche un po’ matta. No, non sono una da sposare». Tuttavia, un compagno che la segue e l’affianca c’è, si chiama Marco e fa il giardiniere in Svizzera: «Mi supporta nei miei progetti, che sembrano impossibili, ma spesso mi aiuta anche a tenere i piedi per terra. Fosse per i miei sogni, salverei l’Africa intera».
«Prima l’Africa era vacanza, ora è casa»
Nella vita di Francesca, oggi c’è un filo che collega le case silenziose di un borgo fuori dal tempo, come è Caldana (piccola frazione di Cocquio Trevisago), con le capanne affollate di un villaggio africano all’ombra del lusso dei resort turistici. «Tutto cominciò per caso, o forse non era un caso. Era il 2012, io e il mio compagno ci eravamo regalati una vacanza in Kenya, un safari in un luogo da sogno. Lui, in modo del tutto fortuito, s’infortunò a una caviglia e fu costretto a rimanere a riposo. Durante quello stop forzato, io per curiosità e per noia, contravvenendo a tutte le raccomandazioni, un giorno decisi di andare da sola a scoprire il mondo fuori dal villaggio turistico.
L’Africa dei cataloghi patinati è così distante dall’Africa dura, complessa, difficile, sofferente e piena di contrasti che sta fuori dagli itinerari: la realtà addomesticata è dentro l’atmosfera dei safari e delle piscine lussuose, quella autentica è scioccante e anche imprevedibile, sta appena lì fuori. «Passeggiavo da sola sulla spiaggia stupenda di Jacaranda e mi ritrovai circondata da giovani del posto. Sapevano che ero italiana e provavano ad attaccare discorso, anche ridacchiando. Tra questi, un po’ in disparte, c’era un ragazzino che aveva in mano un biglietto sul quale trascriveva le parole che dicevo. Scoprii, poi, che stava cercando di imparare l’italiano, a suo modo, annotando con la matita tutte le parole che sentiva pronunciare dai turisti». La diffidenza è come un vestito troppo stretto per un’anima libera come Francesca Tria: oggi, come quel giorno di undici anni fa. «Mi avvicinai e chiesi il suo nome. Lui mi rispose “frigorifero”! Fu così che conobbi Derik e grazie a lui cambiò il mio modo di vedere l’Africa». Derik era un ragazzino di sedici anni, Francesca una mamma giovanissima, cresciuta tra Varese e la dogana elvetica. In sella a uno scooter, quel ragazzino intraprendente e quella donna imprudente entrarono nell’altra Africa. Derik volle mostrare a Francesca il suo villaggio: capanne e povertà estrema. Saltava i pasti, quel ragazzino, ma cercava di imparare le lingue, inseguendo il sogno di una vita migliore: «Diventammo amici e io decisi di pagargli la scuola, per cinque anni. Spedivo i soldi dall’Italia, lui mi faceva avere le pagelle, a volte disastrose: tuttavia, insistendo è andato avanti, fino a completare gli studi». Francesca l’ha fatto e basta, perché sentiva che era giusto farlo. «Prima, non ci avevo mai pensato. Sì, vengo da una piccola realtà di volontariato. Prima di quella volta, il mio impegno per gli altri era nella Società operaia di Caldana, lo faccio ancora adesso, ma quel giorno in Kenya è successo qualcosa di diverso, mi si è aperto un mondo». L’altra Africa, Francesca l’ha presto condivisa con gli altri: il suo entusiasmo contagioso ha travolto amici, parenti e compagne di viaggio. Come Silvia, ragazza marchigiana conosciuta proprio in quella vacanza del 2012 e oggi fondatrice assieme a lei dell’associazione “Merisha for Kenya”.
Derik, Merisha e i bambini di Gede
«Anche tutto quel che è venuto dopo è colpa di Derik. Ero già tornata da lui nel 2017, con valigie strapiene di vestiti, scarpe, viveri necessari. Poi, una volta, era il 2019, quel ragazzino mi fece conoscere il villaggio di Gede e lì incontrammo una bambina affetta da una grave disabilità che viveva e vive tutt’ora, costantemente a contatto con sua madre. Mamma e figlia abitavano in una baracca fatiscente: con i miei amici decidemmo di ricostruirla e ci riuscimmo con una spesa davvero irrisoria».
Da quell’incontro con la piccola Merisha, Francesca non si è più fermata: aerei, valigie e progetti, andate e ritorni, da Caldana al Kenya, non il Kenya artificiale dei resort, ma quello affamato, povero e tuttavia sempre sorridente, dei villaggi e delle baraccopoli attorno a Malindi e Watamu. «L’idea di costruire la scuola è venuta fuori per caso anche quella. A gennaio 2020, poche settimane prima della pandemia, volli a tutti costi andare a festeggiare il mio compleanno giù, con Derik e la sua comunità. Arrivai al villaggio dopo aver comprato dei polli da far cucinare alle donne, per festeggiare tutti insieme». Con lei, il compagno Marco e gli amici di quella vacanza (Silvia in testa). Come regalo, ecco un’idea: «Potremmo fare qualcosa di bello» che, traducendo i pensieri di Francesca, non era una rilassante passeggiata sulla spiaggia. E lì, tra le capanne, c’era la scuola che stava andando a pezzi. «Così è nata l’idea dell’associazione “Merisha for Kenya”, per finanziare non soltanto la scuola, ma anche un progetto per offrire istruzione ai bambini del luogo, istruzione gratuita. In Kenya, la scuola è a pagamento e nei villaggi più poveri, sono in pochi a potersela permettere».
Oggi, la scuola di Gede, nata da un’idea matta di Francesca, Silvia e degli amici italiani, è frequentata da 165 bambini: «Abbiamo cinque insegnanti e una cuoca, perché ai bambini diamo anche la colazione e il pranzo. E anche per questo sono tante le famiglie che portano i figli da noi». Con 180 euro si riescono a pagare studi, pasti e iscrizioni agli esami di stato per un anno a un bambino di Gede. «Laggiù, un pranzo, che è quasi sempre a base della loro polenta, con fagioli e, a volte, pollo, costa 80 centesimi. E il divario con il nostro mondo è davvero scioccante. Quando torno a casa, è impossibile non pensarci: quando capita di passare una serata fuori a cena con il mio compagno, al ristorante, via a spendere 70, 80 euro in due. Cosa normalissima, certo, ma non riesco a non pensare a quanto potrei fare giù dai miei bambini africani, con quei 70 euro».
Dal nulla, dall’ozio di una vacanza, alla consapevolezza di quanto superfluo riempie le nostre vite e distorce il punto di vista. Francesca, con tenera ingenuità, ha scoperto l’altra Africa, quella che chiede aiuto, ma restituisce emozioni profonde: «La felicità di quei bambini, la loro gioia, la loro serenità mi hanno cambiato il punto di vista, sono una soddisfazione che non si riesce a spiegare. Non hanno nulla, vivono senza acqua corrente, senza luce, vivono di niente, ma sono felici e le loro famiglie si commuovono nel vedere i loro figli andare a scuola. Il contrasto con la nostra realtà è pazzesco, se penso alla noia dei nostri bambini, schiavi dei loro smartphone e con il cervello spento».
È un’anima semplice, Francesca, e ha pensieri e sentimenti semplici, tuttavia profondi, come le sue idee. «I progetti della nostra associazione si sono moltiplicati e la gente, quando sono in Italia, mi aiuta, mi viene a cercare. Mi sembra incredibile. A Caldana, a volte mi suonano al citofono persone che nemmeno conosco, persone che scoprono per caso quel che faccio e vogliono donare qualcosa. Come un signore di Azzio che si è presentato a casa e si è offerto di finanziare praticamente da solo il progetto di un allevamento di polli nel villaggio di Gede, portato avanti da alcune famiglie locali».
Da Caldana al Kenya, per cambiare in meglio un pezzetto di mondo e la propria vita
La piccola Caldana, le case silenziose, i boschi che salgono al Campo dei Fiori: bello questo mondo, ma troppo stretto per l’indole vivace e alla mentalità aperta di una donna, che non ha avuto bisogno di grandi studi o formazione specifica per capire i mali dell’Africa che i cataloghi delle agenzie viaggi non mostrano. «Fortuna, fortuna sfacciata, quella di essere venuti al mondo qui. Laggiù nel villaggio dei “miei” bambini, anche avere una lampadina in casa è un lusso».
Tenace quanto le sue amate api, alle quali si dedica quando è a Caldana, senza slanci religiosi o visioni politiche particolari, Francesca prosegue il suo impegno in Africa, moltiplicando i suo “facciamo qualcosa di bello”. E cambia in meglio la vita delle persone. Il piccolo Derik è cresciuto, anche se per lui Francesca è sempre la sua “mami” di undici anni fa. Oggi è una guida turistica, parla le lingue, ha la lampadina in casa, mangia tutti i giorni ed è il referente locale dell’associazione di Francesca e i suoi amici. «È diventato papà due volte, la prima figlia porta il mio nome, la seconda Martina, come mia figlia che la sua stessa età e che considera la sorella che non ha mai incontrato». Un incrocio di destini ha prodotto felicità e ha cambiato in meglio un pezzetto di mondo. Sulla meravigliosa spiaggia di Jacaranda, un ragazzino che diceva di chiamarsi “frigorifero” fece amicizia con una giovane donna a cui era stato raccomandato di non dare confidenza agli estranei: potrebbe essere l’incipit di un romanzo, ma è l’inizio della nuova vita dei bambini di Gede.
Accedi o registrati per commentare questo articolo.
L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.