La poesia salverà il mondo: il dialetto vivo di Enrico Tediosi
Enrico Tediosi vede e pensa il mondo a modo suo, un po’ in rima, un po’ in prosa. Parole che danzano con la natura e i ricordi
“Ma un cassétt de fantasie
quand l’è piin el se dervìss
l’armunie d’un ventusél
par magie l’é…puesie”
Sotto il grigio quasi bianco dei capelli, Enrico Tediosi vede e pensa il mondo a modo suo, un po’ in rima, un po’ in prosa. Parole che danzano con la natura e i ricordi. Idee mai statiche, ma sempre in movimento: parole che girano in testa, sì, «ma sempre in dialetto». Fin da bambino vede la realtà con i colori e le sfumature di una lingua, che è tutt’altro che morta, secondo la sua visione: «Il dialetto non ti frega, è una lingua onesta, perché va dritto al punto. L’italiano ha mille sfumature, paroloni per girare intorno a ogni questione. Col dialetto vai all’essenziale, cogli l’autenticità genuina delle cose».
Artigiano, bidello, impiegato: oggi è un riferimento dei poeti del territorio
Oggi presiede il “Cenacolo dei poeti e prosatori dialettali varesini e varesotti” e nella piccola sede di Oltrona al Lago ha voluto lasciare appesa una pendola con le lancette immobili sempre sulla stessa ora: «Perché il dialetto ferma il tempo. Non è fuori dalla realtà, ma si riallaccia a un mondo passato e parla al presente». Vive a Travedona Monate, recita, canta, compone tra il lago, poetico per natura, e la campagna, «che è un riconciliarmi quotidiano con le radici. Con mio nonno, soprattutto, a cui sono infinitamente legato e a cui si ispira molta della mia poesia». In questa provincia caotica, che gira su sé stessa e il fatturato, che insegue performances tecnologiche, tutta uffici, capannoni e villette, ci sono ancora i poeti. E non sono pochi, all’ombra del Campo dei Fiori. Testimoni di un mondo che viaggia in un’altra dimensione, che osserva la natura e la racchiude in strofe, rime, pensieri più alti: «Non è un chiudersi in sé stessi, il dialetto è come il pensiero di una casa quando ne sei lontano. È un conforto». Ossigeno per pensieri belli, semplici, sicuramente più a misura di umanità. Enrico Tediosi ha superato i settant’anni, ma la visione del fanciullino l’ha sempre tenuta ben viva. E il suo sogno è quello di condividerla con i più piccoli: «Tramandare il dialetto è una missione, non possiamo cancellare le nostre radici. E i più piccoli recepiscono molto bene. Non tanto gli adolescenti o gli adulti che hanno ormai perso contatto con questa lingua, ma i bambini ne rimangono sempre affascinati e lo imparano anche facilmente». In altre zone d’Italia, in altre province, il dialetto è ancora molto diffuso nella vita quotidiana: si pensi al Veneto o ad altre province lombarde, all’Italia meridionale. Qui da noi lo si è abbandonato, la questione delle radici è meno sentita: «Soprattutto nelle città. A Varese, ormai, sono pochissimi a parlare e tramandare il dialetto, la gente è persino un po’ snob. In provincia è più diffuso».
Da Pasolini a De André, i difensori moderni di lingue che sono parte di noi
Tediosi non ha una visione politicizzata della questione, è amore gratuito: «La politica ha cercato, in passato, di fare della diffusione del dialetto un cavallo di battaglia. Non era un’idea malvagia, ma erano in pochi a crederci veramente. Ed è una questione culturale, bisogna pensare su questo piano. Due grandi maestri moderni, due artisti straordinari che più di altri hanno posto la questione, facendolo in modo straordinario, sono stati Fabrizio De André e Pier Paolo Pasolini». “Umbre de muri, muri de mainé, dunde ne vegni, duve l’è ch’ané?”. È l’incipit di “Crêuza de mä”, la traccia che dà il titolo al disco di De André interamente cantato in genovese. Il verso significa “Ombre di facce, facce di marinai, da dove venite, dov’è che andate?”.
Un maestro dà l’esempio, il dialetto riporta le anime sensibili alle origini. La propria storia rinasce dalle parole. De André attinge a Genova e ai pescatori, Tediosi ha un’altra storia: «Che va ad attingere nella quotidianità dei contadini di Travedona che io ho conosciuto da bambino. E che è storia della mia famiglia». Enrico è figlio di un pellettiere di origini milanesi e di una figlia di contadini di Travedona: «Ho vissuto la mia infanzia soprattutto a Vigevano, dove mio padre aveva una fabbrichetta di cinture e borse. Poi da ragazzino ebbi un grave incidente domestico che mi provocò ustioni molto serie alle gambe. E in quella situazione mi portarono dal nonno a Travedona: per mesi, fu lui a curarmi con la sugna, con decine, centinaia di massaggi. In quel periodo, il rapporto con mio nonno divenne strettissimo e, stando con lui, mi accorsi che io ormai non solo parlavo, ma pensavo persino in dialetto. Era un modo per entrare più in sintonia con lui, ma da quegli anni non penso più in italiano».
La città è più snob, il dialetto ha più futuro in provincia
Una gioventù non facile, quella di Enrico, il maggiore di tre fratelli, rimasti orfani di padre troppo presto: «Mio padre morì che avevo 17 anni, il giorno stesso in cui, per la prima volta riuscii a batterlo per l’unica volta a biliardo, una passione che condividevo con lui. Certo, vinsi io quella partita, ma lui mi aveva dato 80 punti di vantaggio. La sera non tornò a casa. Sono momenti della mia vita che hanno scolpito il mio carattere, ma anche il mio modo di fare poesia. Fu proprio dopo la morte di mio padre che cominciai a scrivere seriamente. Cercavo rifugio nelle parole, cercavo di tirar fuori il disagio che avevo dentro». “Car ul me vecc”, un pensiero ricorrente nella vita quotidiana di Enrico Tediosi, quel pensiero che lo continua a legare a suo padre: «Morì che aveva 46 anni e io allora lo consideravo un vecchio. Oggi ripenso a quel “vecc” e io ho 71 anni. E il punto di vista cambia, vedi il mondo con altri occhi». È un ringraziamento quotidiano, il suo, come quello che rivolge sempre a sua madre: «Non aveva cultura, ma con lei ho imparato a leggere, grazie alle sue infinite storie, alle favole di Andersen e dei fratelli Grimm che mi lesse centinaia di volte, quando ero bambino. La passione per la lettura, la curiosità per i libri la devo a lei». Avrebbe potuto diventare un buon calciatore, da ragazzo una volta sfidò Gigi Riva, avrebbe voluto studiare, avrebbe voluto scegliere un altro percorso, ma poi la vita gliene ha regalato un altro e ha imparato a studiare e ad amare la poesia guardandosi dentro e interagendo a suo modo con la natura. «I miei parenti e gli amici mi prendono in giro, dicendo che somiglio a San Francesco. Perché ho una gazza che ho ammaestrato e con la quale dialogo tutti i giorni. Ho ammaestrato anche una cornacchia, amo gli animali, ma non ho il senso religioso di Francesco. Quella visione, tuttavia, mi aiuta a vedere nella natura qualcosa in più».
Gli adulti dimenticano, il dialetto va insegnato ai bambini
A ognuno il suo percorso, a Tediosi ne è toccato uno piuttosto tortuoso, tra la vita, la natura e la morte: «Dieci anni fa, un ictus di cui porto ancora con me qualche conseguenza, mi ha costretto a ripartire da zero. Ero come un bambino da rieducare, a cominciare dalle prime parole. E la poesia, ancora una volta, mi ha salvato, mi ha aiutato a uscire da quella situazione. Pensando, come sempre, in dialetto». Oggi, però, Tediosi ha aperto il Cenacolo anche ai poeti non dialettali, fatto che ha suscitato qualche mugugno negli artisti più radicali, ancorati al dialetto: «Il mondo cambia, bisogna saper guardare anche a questo. E un dialogo tra poeti, tutti, è importante. Anche il dialetto cambia, non ci sono regole precise, ma è la realtà che si evolve e di conseguenza anche la lingua. Si pensi, che so, alla parola “televisiùn”: se guardiamo alle radici del dialetto, non esisteva. Poi però, quando hanno inventato la televisione, anche la lingua si è adeguata. E così anche oggi, nell’era della telematica. Non possiamo ancorarci al passato e basta». Una lingua è il risultato di millenni di storia, di commistioni, di influenze. Ogni luogo ha di conseguenza una sua lingua tipica: il dialetto di Angera, per esempio, è totalmente diverso da quello di Travedona o Varese. Perché sul Lago Maggiore si è sentita maggiormente l’influenza dei milanesi, ma anche dei viaggiatori che scendevano dall’Europa. Ci sono mille esempi, che rendono straordinaria una lingua e il suo legame con il territorio. E il Varesotto è terra di vari dialetti, non uno soltanto, ma tutti meravigliosi. «Ogni parola dialettale ha in sé una storia, è parte delle nostre radici. Non è un’operazione nostalgica quella di tramandarle e preservarle, ma è una questione culturale che riguarda la nostra identità». Centinaia di poesie, decine di libri, Tediosi è uno dei poeti varesini tra i più premiati in assoluto, nei concorsi di mezza Italia. «Eppure, a me piace più il teatro, il canto. Non sono io a scegliere, è la poesia che mi cerca. Come dopo l’ictus, oggi, sempre: la poesia mi cerca, mi porta a mettere sui fogli pensieri, colori, emozioni, sensazioni, riflessioni». Il Cenacolo dei poeti ha la sua pendola che segna, come ogni sera, la solita ora. Fuori, ad argentare le acque del lago, ci pensa la luna, meravigliosamente piena. Enorme. All’alba, la provincia è pronta a ripartire, girando su sé stessa. Guardando la luna, invece, vien voglia di dar ragione alla pendola. Enrico Tediosi risale in auto e guida verso casa, dopo aver spento le luci del locale, dopo aver raccontato tutta la sua vita, pensando a cosa farà domani: «Il libro più serio, quello che mi manca, vorrei scriverlo ai bambini».
Regne re nocc süre strade che dröm
E mi canti cur vent, menestréll dure lüne.
Regna la notte, sulla strada che dorme
E io canto col vento, menestrello della luna
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