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Salvatore Borsellino a Luino: “Grido per Paolo, finché avrò voce”

Dolore, rabbia e amore civile nell’incontro dedicato a Paolo Borsellino, il magistrato simbolo della lotta alla mafia, ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992. Un racconto che attraversa la storia italiana e il bisogno di verità mai svelate

Luino generiche

È bastato che iniziasse a parlare per capire che non sarebbe stata una lezione, né un semplice ricordo. Salvatore Borsellino è entrato subito nel cuore del suo racconto con la forza di una memoria che brucia ancora. Doloroso, denso, pieno di dettagli che non si sono mai sedimentati, ha riportato al centro della scena la figura del fratello Paolo — magistrato simbolo della lotta alla mafia — ma soprattutto l’uomo, il fratello, il figlio, ucciso in via D’Amelio il 19 luglio 1992. Un racconto che è stato pugno nello stomaco e richiesta di ascolto, accolto da una sala gremita e silenziosa, quella della Sala Giovanni Reale di Palazzo Verbania di Luino, dove lunedì 28 aprile si è tenuto l’incontro “Fino all’ultimo giorno della mia vita”, organizzato dall’associazione Su la Testa – APS con il patrocinio del Comune di Luino e la collaborazione del Centro Studi “Paolo Borsellino e Rocco Chinnici”, dell’associazione Fazzoletti Bianchi, dell’Associazione Nazionale Carabinieri e di altre realtà locali.

Salvatore Borsellino, 83 anni, ha ripercorso i 57 giorni che divisero la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. «Paolo sapeva. Sapeva che lo avrebbero ucciso. Lo sapeva da subito, da quando morì Giovanni Falcone, che per lui non era solo un collega, ma un fratello di ideali, di valori, di visione del mondo. Dopo Capaci, provai a convincerlo ad andarsene. A proteggersi. Ma lui non volle. Rimase. Perché, come disse, Palermo non gli piaceva ma per questo aveva imparato ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace, per poterlo cambiare».

La domenica della strage, Paolo stava andando a trovare la madre, come faceva «regolarmente tre volte alla settimana». Quel giorno, però, lo stavano aspettando. Una Fiat 126 era stata riempita con novanta chili di tritolo e parcheggiata proprio sotto casa. Quando scese dall’auto blindata e si avvicinò al citofono per suonare, l’esplosione lo travolse. Il suo corpo fu ritrovato senza le gambe e senza il braccio con cui stava per suonare. Con lui morirono cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina. «La sua scorta, che non considerava quel compito un semplice lavoro ma una missione, fu colpita ancora più duramente. Le armi che portavano, invece di proteggerli, peggiorarono l’effetto dell’esplosione, amplificando la deflagrazione».

Nel racconto, Salvatore non ha nascosto la crudezza del dolore, ma neppure la lucidità del fratello, che negli ultimi giorni sembrava prepararsi. «Si stava distaccando dai figli, quasi volesse abituarli alla sua assenza. Sapeva. Ma non si è mai fermato». Nel cuore della sua testimonianza anche la figura della madre, rimasta in vita cinque anni dopo la morte di Paolo. «Quando Paolo è morto, nostra madre ci ha detto: “Ora tocca a voi continuare. Non dovete permettere che il suo sacrificio venga dimenticato o tradito”».

Non solo però dolore e memoria: nella voce di Salvatore c’era anche rabbia. Una rabbia che non si è spenta e che ancora oggi alimenta la sua battaglia per la verità. All’inizio, racconta, credeva che raccontare potesse servire.  «Per cinque anni ho parlato, sperando che servisse. Poi ho iniziato a vedere che nulla cambiava. Allora ho cominciato a leggere, a cercare. E ho capito: quella strage non fu solo mafia. C’erano altre mani, altre omissioni, altre regie. Non basta dire “mafia” per spiegare quello che è successo».

È da questa consapevolezza che nel 2009 nasce il Movimento delle Agende Rosse. Una risposta al buco nero che si è aperto attorno alla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo, sparita pochi minuti dopo l’esplosione. «Non è mai stata ritrovata. Non è un mistero, è una prova occultata. In quell’agenda c’erano elementi scomodi, nomi, collegamenti. È diventata il simbolo di ciò che ancora oggi viene nascosto».

Ma al centro dell’intervento di Salvatore non c’è solo la denuncia. C’è anche la speranza quella che, racconta Salvatore, Paolo non ha mai perso, fino all’ultimo giorno della sua vita. Lo dimostra una lettera, scritta la mattina stessa della strage, indirizzata a un gruppo di studenti di Padova. Una lettera lucida, dove il giudice raccontava di essere stato per molto tempo «un ingenuo e un indifferente», prima di aprire gli occhi sulla realtà mafiosa e scegliere da che parte stare. Una lettera che si chiudeva con un messaggio ai ragazzi: non smettete di cercare la verità.

«Fino all’ultimo giorno della mia vita — come cita anche il titolo del suo libro — continuerò a gridare. Ma la speranza più grande è che siano i giovani a raccogliere questa battaglia, custodi di un futuro libero dalla cultura mafiosa».

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Pubblicato il 29 Aprile 2025
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