La testimonianza del dottor Toscano, da dirigente del San Biagio a paziente Covid
Una lettera nella quale traspare la profonda gratitudine verso i "suoi" ex dipendenti
Pubblichiamo questa lettera di ringraziamento agli “angeli protettori” che quotidianamente lavorano in ospedale a Domodossola, ma non solo. Una lettera scritta da un letto dell’ospedale domese da un paziente, ricoverato perché colpito dal Covid-19. Non un paziente qualunque, non una lettera qualunque.
E’ una toccante testimonianza da chi il Coronavirus lo ha combattuto prima sul campo e poi in un letto di ospedale. A scriverla l’ex direttore sanitario dell’ospedale San Biagio, il dottor Pasquale Toscano, storico medico che fino ad agosto ha diretto il nosocomio domese prima di trasferirsi nell’alessandrino dove dirige tre dei 5 ospedali della provincia, Casale Monferrato, Acqui Terme e Ovada. E proprio in questa Asl piemontese ha lavorato per organizzare al meglio la gestione nelle sue drammatiche fasi iniziali prima di essere colpito dal virus.
Certo di questi tempi si “vince facile” nel ringraziare ed osannare medici, infermieri ed Oss, ma le parole di Pasquale Toscano hanno un sapore diverso da quello di un qualsiasi paziente. Pasquale Toscano conosce tutto del San Biagio, dai reparti, alle sale d’attesa, dagli uffici, alle sale operatorie, fino al personale sanitario, amministrativo e dei servizi secondari. Chi ha avuto modo di conoscerlo in ambito lavorativo ha potuto apprezzarne le capacità professionali e dirigenziali, come il sottoscritto che lo ha potuto conoscere professionalmente parlando con lui per svariati motivi sanitari-giornalistici.
Ma leggere questa lettera fa capire quanto una persona colpita da questo maledetto virus possa apparire fragile e spaesata, sola in un reparto senza attorno l’affetto dei propri cari, ma con intorno l’umanità di chi sta lottando in prima linea anche solo per strappare un sorriso ai pazienti sofferenti. Credo che i complimenti al mondo sanitario locale e non siano certo apprezzabili, ma i ringraziamenti del dottor Toscano, sono certo, sapranno toccare nel profondo chi con lui ha lavorato prima e se ne è preso cura dopo come paziente.
Grazie Pasquale, in bocca al lupo. E naturalmente ancora una volta grazie a tutti gli “angeli protettori” del San Biagio.
Caro Direttore, dopo aver letto la lettera della signora che lavora come OSS nella Medicina COVID del San Biagio di Domodossola, mi sono sentito in dovere morale di condividere la sua rabbia, le sue emozioni, i suoi sconforti e le sue sofferenze, come ha ben descritto nelle sue parole, e manifestare la mia sincera solidarietà nei confronti di chi lavora per la nostra salute.
Forse non conosco direttamente la signora, ma conosco buona parte del personale sanitario che lavora nei presidi di Domodossola e Verbania, di tutte le qualifiche, avendo io lavorato in Direzione Sanitaria per più di vent’anni, fino allo scorso mese di agosto quando sono andato a dirigere tre dei cinque ospedali dell’ASL di Alessandria (Casale Monferrato, Acqui Terme e Ovada) e conosco la professionalità e la dedizione che sempre il personale sanitario dell’ASL VCO e, come ho potuto apprezzare successivamente, anche quello dell’ASL AL, dimostrano nello svolgimento del loro lavoro, soprattutto nelle tragiche circostanze che ci hanno convolti in quest’ultimo periodo.Voglio portare la mia testimonianza in duplice veste, prima come Medico con funzioni organizzative che ha dovuto gestire sin dall’inizio l’emergenza COVID nei propri ospedali, poi come paziente, mio malgrado, colpito anch’io da questa maledetta infezione.
Come Direttore Ospedaliero, assieme a tutti i vertici della mia Azienda ho fatto parte dell’Unità di Crisi Aziendale che ha predisposto i piani per l’emergenza Coronavirus, in accordo con l’Unità di Crisi Regionale e in applicazione ad un innumerevole sequenza di Circolari Ministeriali, Regionali, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Organizzazione Mondiali della Sanità. Tutte cose complicate, burocratiche, ma necessarie ed indispensabili per essere preparati all’arrivo anche in Italia dell’epidemia, come in effetti è avvenuto.Abbiamo quindi cominciato a fare modifiche nell’attività dei reparti, degli ambulatori, delle sale operatorie, predisponendo le azioni per arrivare eventualmente a sgomberare reparti interi per dedicarli ai casi sospetti, come è accaduto realmente e improvvisamente spesso nelle ore serali, chiedendo la collaborazione al personale infermieristico, OSS, medici, tutti impauriti e allibiti dal crescendo continuo dell’emergenza e da quella necessità di fare “tutto e subito”. Ma nessuno si è tirato indietro, pur nell’incertezza di cosa dover fare esattamente, facendo in fretta corsi di formazione per la corretta vestizione e svestizione degli operatori con i Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) e per la gestione dei pazienti in arrivo, tutti “triagiati” al DEA e identificati come casi sospetti, secondo le definizioni dell’OMS e dell’Istituto Superiore di Sanità, definizioni che si sono modificate continuamente in base all’evoluzione epidemiologica mondiale e nazionale della malattia. E ogni volta le procedure per il personale dovevano essere modificate, aggiornate, spiegate, applicate. E tutto il personale con grandissimo spirito di sacrificio e senso del dovere ha risposto con forza e puntualità a tutto ciò che gli è stato chiesto, sempre comunque con una crescente preoccupazione di non riuscire a farcela a seguire il numero via via più alto di pazienti. Non si trattava più solo di pazienti provenienti dalla Cina nei precedenti quattordici giorni con disturbi respiratori, febbre, dissenteria; oramai i focolai epidemici si erano sviluppati anche da noi e le misure di contenimento dei contatti, poi adottate finalmente, non erano ancora state messe in atto.
Ecco che allora i casi sospetti che giungevano nei tendoni di pre-Triage fuori da tutti i DEA, altro importante provvedimento intrapreso, venivano identificati, avviati verso l’iter diagnostico (radiografia del torace, rilievo dei parametri, analisi di Laboratorio, etc.) e da ultimo l’esecuzione del tampone faringeo per la ricerca del virus, che all’inizio richiedeva l’attesa di qualche giorno per il risultato. Perciò, nell’attesa dell’esito, i pazienti dovevano essere ospitati ciascuno in una camera singolarmente, non potendo rischiare di mettere due pazienti in una stessa stanza senza conoscere se positivi o negativi. Per questo motivo le necessità di posti letto sono andate improvvisamente aumentando e dopo una ennesima riunione serale con l’ufficio infermieristico, il Direttore DEA, i coordinatori infermieristici dei reparti interessati e l’Infermiera addetta al Rischio Infettivo, si è deciso di accorpare 2 reparti chirurgici in uno solo, liberando un intero piano di 30 letti da sanificare, riordinare e preparare, rigorosamente un paziente per ogni camera fino a esito del tampone, per accogliere i pazienti che nella notte si presumeva sarebbero arrivati al tendone di pre-Triage. Il personale in questo caso, lavorando normalmente in reparti chirurgici era impreparato alla gestione di pazienti di questo tipo, ma con coscienza e impegno ha seguito la rapida formazione di vestizione e svestizione della nostra Infermiera del Rischio Infettivo, ha ricevuto le procedure operative di gestione del paziente sospetto o positivo. Erano spaventati, per l’incertezza sul da farsi, ma dopo poche parole di rassicurazione e di sostegno si approntavano ad affrontare i loro primi casi di COVID-19.
E per fortuna che sono state fatte queste operazioni di accorpamenti perché quella notte, come previsto, gli accessi sono aumentati e i posti letto sono stati fondamentali, con tutto il personale che in fretta si è adeguato alla gestione di tale tipologia di pazienti che non avevano mai trattato.
È stato difficile per tutti, ma questo era solo l’inizio. I casi prima solo sospetti sono diventati “pazienti positivi”, con necessità assistenziali sempre maggiori, precauzioni da adottare da parte dei lavoratori molto scrupolose, sia per la loro sicurezza che per i pazienti, situazioni di aggravamento improvviso dei pazienti che necessitavo urgentemente del rianimatore, di essere ventilati artificialmente per la loro sopravvivenza, situazioni a volte di sconfortante e sconvolgente impotenza di fronte alla morte. Queste situazioni hanno cominciato a influire psicologicamente sugli operatori, nessuno abituato a vedere tante persone in così poco tempo passare dalla vita alla morte e, cosa ancora più drammatica, senza nemmeno essere assistiti negli ultimi istanti da un proprio caro, senza che i famigliari potessero vedere per l’ultima volta i loro congiunti prima di essere chiusi nelle bare per condizioni di sicurezza sanitaria. Sono fenomeni psicologicamente devastanti per tutti, eppure bisogna tener duro, ci sono tante persone ancora da salvare e verranno salvate, guariranno, per fortuna, grazie all’impegno ammirevole di tutto il personale sanitario.
Questo è quello che ho voluto testimoniare con la veste ufficiale della mia funzione organizzativa e con le impressioni raccolte sul campo dagli operatori sanitari che in prima linea hanno egregiamente gestito le fasi incerte e difficilissime iniziali, ma sempre con abnegazione ed incredibile umanità.
Arrivo dunque alla mia seconda veste, una in cui non avrei mai voluto trovarmi, quella di paziente del mio vecchio caro San Biagio, a cui sono rimasto affezionato perché mi ha dato tanto dal punto di vista professionale e umano. Ho capito ancora di più da paziente, affetto da questa maledetta infezione, l’indispensabilità dell’unico supporto umano che in questa situazione ti rimane quando non c’è più alcun altro che può starti materialmente vicino (familiari, amici). I tuoi ANGELI CUSTODI diventano loro: infermieri, OSS, medici; a loro ti affidi perché capisci che solo loro possono fare qualcosa per te, qualunque cosa sia nelle loro possibilità, oltre le terapie, alle cure igieniche, anche dirti una semplice parola di supporto, di dolce umanità, di cui hai un maledetto bisogno in quel momento. Sono un privilegiato, lo ammetto, quasi tutti mi conoscevano, mi salutavano, mi parlavano, mi sorridevano, ma nei primi giorni vi assicuro e me ne scuso con chi mi parlava, non sempre riuscivo a riconoscere sotto il rumore continuo dell’ossigeno attraverso la mascherina e per la secchezza della bocca e della gola che l’ossigeno giorno e notte ti provoca, le voci a me un tempo familiari; non riuscivo a vedere i sorrisi spontanei e di incoraggiamento che mi facevano sotto le mascherine, le visiere facciali, le cuffie, i doppi camici; tutte erano uguali, indistinte, ma ugualmente umane, amorevoli, attente, con me come con tutti gli altri pazienti delle altre camere che io non potevo vedere, ma che dopo qualche giorno ho imparato a conoscere dalle voci attutite dalle mascherine. Ad ogni loro o mia chiamata gli “angeli”, i nostri angeli, arrivano prontamente, con fare gentile e premuroso ti chiedono di cosa hai bisogno, con i loro sorrisi nascosti dalle maschere, ti rassicurano, ti cambiano se c’è bisogno o semplicemente ti tranquillizzano per farti dormire ancora un po’ nelle lunghissime notti. La notte qui è eterna, davvero, non vedi l’ora che inizi il giro delle 6 del mattino per rivedere un nuovo giorno, sperando sia un giorno in meno della tua sofferenza e di quella di tutti gli altri. Dopo le consegne sui pazienti cambiano gli operatori del nuovo turno ma non cambiano i modi gentili, i gesti premurosi, la disponibilità; siamo tutti coccolati, siamo tutti pazienti bisognosi del loro aiuto e loro non si risparmiano in nulla, assolutamente. È vero, riconosco ogni giorno che divento più lucido, il senso dei discorsi della OSS della Medicina che ha giustamente manifestato il suo sfogo. Quando ho potuto ho chiesto ai miei angeli cosa provavano quando andavano a casa o quando dovevano tornare al lavoro per un nuovo turno. Le risposte sono state quasi tutte le stesse, al ritorno a casa propria si spogliano di tutto sull’uscio di casa, buttano tutto in lavatrice quasi a cancellare ogni traccia, ma per preservare il loro ambiente familiare, i loro bambini, i loro mariti, le loro mogli, i genitori; chi ha potuto in questo periodo ha affidato i propri bambini ai nonni o altri familiari sapendo di non poterli vedere per un po’ di tempo.
Purtroppo non ci sono assolute certezze di essere operatori “negativi” al virus, il virus può essere insidioso, averti infettato e magari non dare problemi e sintomi e quindi, cosa peggiore, essere diffuso negli ambienti domestici, ospedalieri, esterni, se non si rispettano quelle rigide regole di isolamento e di protezione che devono assolutamente entrare nella testa di tutti.
Ci sono altre cose che quando esci da qui, dopo il turno, non riesci a lavare, è vero, le lacrime della sofferenza, della frustrazione, dell’impotenza, a volte però anche per la felicità di ricevere piccoli ma importantissimi gesti o parole di gratitudine espresse a fatica attraverso i caschi o le mascherine per l’ossigeno che ti aiutano a respirare, a vivere. Sono tutte emozioni forti che ti caricano di tensioni psicologiche pazzesche e che ti fanno trovare a piangere di nascosto a casa o in qualche angolo dell’ospedale, perché in qualche modo devi scaricare quel qualcosa che costringe la tua gola, quel nodo che anch’io onestamente, come penso molti dei miei sfortunati compagni di ricovero, dobbiamo cercare di sciogliere quando finalmente riusciamo a parlare con i nostri cari o amici che esprimono la loro felicità e il loro sollievo nel sentirci migliorati.
È stato molto commovente sentire, con molta discrezione e rispetto, senza volontaria intenzione, le telefonate dei vicini di camera in vivavoce ai figli, ai nipotini, che con le loro vocine squillanti e gioiose salutano il loro nonno malato, che a fatica continua a parlare, non per la difficoltà a respirare, ma per la grande emozione che prova in quel momento nel poter risentire la felicità dei propri cari. È successo e succede ancora anche a me.
Non voglio dilungarmi oltre, voglio solo concludere con ciò che mi ha indotto a scrivere questa tremenda esperienza: il bisogno sincero, profondo, di ringraziare tutte quelle persone che per il loro lavoro o per il loro spirito di altruismo stanno operando instancabilmente in questi giorni difficili per dare speranza di vivere a tante persone sofferenti e bisognose di un “angelo protettore”.
Grazie di cuore. A tutti.
Pasquale dottor Toscano
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