La farfalla dei ghiacciai, la vipera walser e il maestoso gipeto: tre rare presenze sulle nostre montagne
Questa settimana Paolo Crosa Lenz ci parla di animali

Attraverso il materiale didattico selezionato e proposto alle scuole del Vco lo scrittore e docente ossolano ci parla questa settimana di tre animali delle nostre montagne.
La scuola al tempo del coronavirus /12
Storie di animali
Questa settimana vi parlo di animali. Non domestici o selvatici conosciuti. Sono tre storie: una farfalla, una vipera e un uccello. Le prime due sono endemismi, specie viventi in areali estremamente ristretti e unici, la terza è quella di un gradito ritorno. Tutti e tre ci sono (e auguriamoci rimangano), ma nella maggioranza dei casi non li vediamo perché non li conosciamo. Sono misteri della natura.
Se ritenete utile, potete diffondere i materiali nella rete della “scuola buona” alla quale apparteniamo tutti con orgoglio.
Paolo Crosa Lenz
Erebia christi: lassù dove osano aquile e stambecchi
Erebia christi (Rätzer, 1890) è la “farfalla dei ghiacciai”. Con questo nome, piuttosto carismatico, si fa riferimento al fatto che si tratta una “specie relitta” delle ultime glaciazioni, risalenti a 10.000 anni fa. Questa farfalla alpina è estremamente rara e localizzata, in tutto il mondo vive esclusivamente in 4 – 5 valli tra Piemonte e Svizzera (Antrona, Veglia, Devero, Agaro, Lagginthal). La specie è stata trovata in Italia solamente nel 1972 e anche da allora non si trovavano più di 1 – 3 esemplari all’anno, finché le Aree Protette dell’Ossola, consapevoli di ospitare all’interno dei Parchi una specie più unica che rara, non avviò due progetti scientifici, uno nel 2005 e l’altro dieci anni dopo, per fare luce su questa misteriosa farfalla. Ci racconta il naturalista Andrea Battisti, che sta dedicando la vita a questi studi: “Le farfalle del genere Erebia sono farfalle tipiche di ambienti montuosi; si presentano di colore scuro, con macchie e ocelli arancioni e neri sulle ali. La colorazione scura permette loro di scaldarsi al sole anche con temperature relativamente basse, situazione comune in montagna. I bruchi di questi lepidotteri si nutrono di erbe alpine del genere Festuca o affini, e per alcune specie possono passare due inverni prima che il bruco diventi farfalla. Ed è proprio grazie alla morfologia dei rilievi montuosi che questo gruppo di farfalle ha potuto differenziarsi e manifestare specie uniche in tutta Europa, alcuni rilievi montuosi, infatti, possono essere visti come isole per via della mancanza di continuazione di habitat con altri rilievi. Con il ritirarsi dei ghiacciai, migliaia di anni addietro, alcune di queste Erebie sono rimaste isolate, e diverse specie risultano oggi localizzate e circoscritte, come Erebia flavofasciata, sempre in Valle d’Ossola, o Erebia calcaria, sulle Dolomiti, ma Erebia christi oltre ad essere una specie con una ristretta distribuzione è anche difficile da trovare e osservare, per questo è considerate la specie più rara d’Europa”.
Erebia christi è una specie protetta, è inserita negli allegati II e IV della Dir. Habitat 92/43/CEE ed è considerata “Endangered” (pericolo di estinzione) dalla lista rossa IUCN delle farfalle d’Italia. “I pericoli che gravano su questa farfalla ricadono in parte nella raccolta illegale, ma è la perdita di habitat che più minaccia questa specie. Erebia christi è estremamente specializzata per l’habitat di parete rocciosa, probabilmente anche per via della minore competizione con altre specie, e l’alterazione diretta (costruzione di strade o gallerie) o indiretta (riscaldamento globale) di questo ambiente può portare all’estinzione singole popolazioni, o peggio la specie”.
Siccome Erebia christi vive essenzialmente sulle pareti rocciose è interessante conoscere i metodi di cattura: entomologi che scendono le pareti in corda doppia; in una mano il freno di sicurezza, nell’altra il retino. Roba da alpinisti che fanno ricerca scientifica.
La “vipera walser”: appena scoperta, già rischia l’estinzione
La scoperta di nuove specie animali non è un evento raro come si può credere ma in pochi si sarebbero aspettati che proprio dalle Alpi italiane, e in particolare da quelle del Piemonte orientale, potesse emergere una nuova specie di vipera, la quinta presente nel nostro paese. Autore della scoperta è stato, nel 2016, Lorenzo Laddaga, naturalista erpetologo. La nuova specie è stata chiamata “Vipera walser”, in onore alle popolazioni di lingua tedesca che abitavano nel Medioevo le Alpi Pennine e Lepontine. Per il suo areale ristretto nel nord Piemonte e per la quota, dai 1500 ai 2100 m, è detta anche “vipera dei rododendri”.
E’ un serpente schivo e affascinante di cui si conosce ancora poco e le cui popolazioni rischiano già l’estinzione a causa del riscaldamento globale, della frammentazione degli habitat, ma soprattutto delle catture per collezionismo. Imparare a conoscere e a rispettare questo affascinante abitante dei nostri monti è il primo passo a favore della sua conservazione in quanto tassello importante della biodiversità alpina.
Come per Erebia christi, anche questa “nuova” vipera è considerata un relitto glaciale, durante l’ultima glaciazione sull’arco alpino, è riuscita a trovare zone di rifugio nelle quali a sopravvivere. Ecco probabilmente spiegato il perché della sua maggiore affinità con specie caucasiche piuttosto che quelle presenti oggi sulle Alpi occidentali. Un serpente venuto dal Caucaso?
Il raccontare questa scoperta, mi è occasione per salutare l’anziano amico Diovuole Proletti di Croveo, continuatore dell’opera di don Amedeo Ruscetta, un uomo che, allievo di un grande maestro, ha speso una vita a favore della natura e degli uomini della montagna. Amedeo Ruscetta,
“Il più grande viperaro delle Alpi” come lo definì Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” del 1957, fu parroco di Croveo fino al 1961. Insegnò alla comunità alpestre a trarre fonte di reddito catturando le vipere e inviandole all’Istituto Sieroterapico di Milano per estrarne il veleno e produrre il siero antivipera. A Croveo, nella casa parrocchiale che fu di don Ruscetta, c’è un piccolo museo naturalistico con gli animali da lui impagliati. E’ un gioiello che nessuno conosce.
Il gipeto: il più grande uccello delle Alpi
Nel gennaio 2016, sui contrafforti del Faderhorn (Pizzo della Croce 2477 m) a Macugnaga sono stati avvistati dal colonnello Massimo Mattioli, comandante provinciale del Corpo Forestale, du esemplari di gipeto (Gypaetus barbatus), comunemente noto come “avvoltoio barbuto” o “avvoltoio degli agnelli”. Il gipeto, con un’apertura alare di oltre due metri, è il più grande uccello delle Alpi, il dsuo volo planare maestoso è il simbolo di un ritorno. Dopo di allora, altre segnalazioni certe sono avvenue al Sempione e in Veglia.
Il gipeto è l’avvoltoio di maggiori dimensioni, tra quelli nidificanti in Europa. E’ estinto sulle Alpi dall’inizio del Novecento e da molti anni è oggetto di un ambizioso progetto di reintroduzione che mira a ricostituire una popolazione vitale sulla catena alpina. Il gipeto non è un rapace, non preda, ma uno “spazzino”, si nutre di resti di carogne. E’ stato sterminato per un equivoco: siccome fa il nido anche con la lana di agnelli e pecore trovate morte, pastori e cacciatori lo credevano un predatore. Fiero e imponente sulla lana. Un’estinzione dovuta all’ignoranza.
“Il progetto di reintroduzione ha avuto un grande successo e che ha già permesso di creare una popolazione che attualmente si riproduce in modo autonomo. Nel 2015 sulle Alpi si contavano infatti 32-33 coppie di gipeti, che hanno portato all’involo 20 giovani. Nell’ambito di questo progetto ancora oggi alcuni giovani gipeti nati in cattività vengono ogni anno liberati sulle Alpi. Questi animali sono facilmente riconoscibili nei primi due anni di vita perché mostrano alcune penne decolorate su ali e coda (vengono decolorate dall’uomo al momento del rilascio) ed i loro spostamenti sono conosciuti grazie al fatto che ognuno porta un piccolo trasmettitore satellitare.”
Mi racconta l’amico naturalista Radames Bionda, tecnico faunistico delle Aree Protette dell’Ossola.
“In base alla colorazione del piumaggio ed allo stato della muta possiamo affermare che i due gipeti osservati a Macugnaga sono due animali giovani, uno nato nel 2015 e l’altro nato (con ogni probabilità) nel 2014. Nei due uccelli non sono visibili le caratteristiche penne decolorate e quindi si tratta di gipeti nati dalle coppie che nidificano allo stato naturale. Si tratta di una coppia? Se per coppia si intende due uccelli con “intenzioni riproduttive” possiamo dire di no. La maturità sessuale in questa specie viene raggiunta molto tardivamente, attorno al settimo anno di età, e nei primi anni di vita i giovani gipeti compiono erratismi anche molto ampi, spostandosi su buona parte dell’arco alpino. Sono noti casi di gipeti che si sono spinti fino alle coste settentrionali dell’Olanda o della Germania. E’ quindi probabile che questi due animali continueranno ancora per qualche anno i loro vagabondaggi sulle Alpi, prima di trovare un partner ed un luogo dove riprodursi. Potrebbero fermarsi in zona ancora per qualche giorno, o qualche settimana, anche in base alla disponibilità di cibo o alle condizioni meteorologiche, ma poi è molto probabile che si sposteranno.” Chissà che fine avranno fatto i due gipeti di Macugnaga? Saranno morti oppure saranno diventati genitori?
Un’ultima curiosità. Siccome il progetto iniziale di reintroduzione è stato finanziato dalla Disney, i primi esemplari rilasciati si chiamavano Topolino I, Topolino II, Topolino III, Topolino IV, ecc.
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