Al centro il pensiero, le riflessioni, le sensibilità. Tutte qualità che emergono dal libro di Lorenzo Franzetti. Tutti i giorni, come migliaia di persone, prende il treno e osserva, studia, dialoga con i tanti colleghi pendolari. Il suo sguardo è "privilegiato" perché fa il giornalista. Professione spesso bistrattata, ma che conserva il fascino del poter comunicare. Con quale forma è poi secondario. Il libro di Lorenzo, Dove finisce Milano, nasce dal suo blog Cronache milanesi.
«Ebbene sì, una foresta di pioppi da carta è stata abbattuta per un nuovo libro, il mio: – scrive Lorenzo – non una grande estensione, forse è bastato qualche filare di piante. E ci arrivo, comunque, tra gli ultimi, ben dopo Martina Colombari e Benedetta Parodi… E ringrazio il mio editore, Pietro Macchione, per avermi offerto una chance molto importante: in mancanza della Parodi, il bravo Macchione, offre opportunità ad autori debuttanti come me. Bisogna dargli merito».
Di cosa parla il libro?
«Un libro da treno, nato in treno: io lo definisco così. Una raccolta di racconti brevi: sono trentuno, il numero è assolutamente casuale, la scelta e la successione sono, invece, un intreccio cercato, di vita pendolare, storie di una periferia milanese e di riflessioni scritte da un narratore che, in parte, coincide con il sottoscritto. Trentuno racconti: tutti pensati e scritti sulle carrozze di treni polverosi e, spesso, puzzolenti, che ancora oggi mi portano dal lago, dove io abito, alla metropoli, dove lavoro. Nel tragitto dalla provincia alla grande città c’è molto tempo, spesso anche a causa dei disservizi delle ferrovie, per pensare, scrivere, leggere. Nel 2008, come direttore di Varesenews, hai accettato la mia proposta di far nascere un blog proprio su questa quotidianità: fin dai primi post, tuttavia, ne è venuta fuori una raccolta di storie, aneddoti e vicende che hanno finito per sfociare nel verosimile. E da quello spazio sul web, che credo di occupare in maniera un po’ controcorrente, fuori dagli standard a cui è abituato il lettore di internet, da quell’esperienza ho maturato l’idea di provare a trasformare certi episodi e riflessioni in racconti veri e propri».
Cos’è un libro da treno?
«Un libro che può essere aperto e chiuso e riaperto da uomini e donne che, ogni santo giorno, salgono sui treni per andare a lavorare. Un libro da treno si propone a persone che, in quel momento, hanno mille altre cose per la testa e cercano di evadere, ma anche di riflettere. Ogni capitolo (nel mio caso ogni racconto) potrebbe essere letto nel tragitto tra una fermata e l’altra: poi, vabbé, molto spesso i treni rallentano… Insomma, se penso a certi viaggi da Odissea, chissà, per leggere tutto il mio libro potrebbe addirittura bastare un viaggio da Varese a Milano e ritorno».
Dove finisce Milano?
«A metà strada tra provincia e centro città, ovvero in una periferia come tante, forse. Ho scelto ambientare gran parte dei racconti nel teatro che ho conosciuto io, come pendolare, ovvero il quartiere di Musocco, dalla Certosa al cimitero Maggiore di Milano: lì la cultura è contrasto, non retorica da salotti. La convivenza tra chi entra in città, come pendolare o migrante, e chi ci vive da sempre, è spesso dura: l’impatto è addirittura violento, ma quella periferia che, per certi aspetti, rispecchia la decadenza di una società, brulica di vita. Dove andrà a finire Milano? Non credo di saperlo, ma la partita non la si giocherà certo nei quartieri “bene”. Con i miei racconti, cerco di mostrare proprio questo».
Perché questo libro?
«Dove finisce Milano l’ho scritto perché avevo bisogno di farlo, l’ho pubblicato per una scelta ben precisa, quella di cercare finalmente un confronto con un pubblico di lettori sul piano della cultura e delle idee. A quarant’anni mi sono regalato una strada alternativa per scrivere quello che forse non sarò mai in grado di comunicare con il mio mestiere di giornalista. La narrativa è quello spazio in cui la mia scrittura non ha padroni ed esorta un pubblico: leggetemi, provate a leggermi».
Sono storie vere?
«Sono verosimili. La realtà è il punto di partenza di tutti i racconti e i personaggi, ma poi la trama prende una strada tutta sua, spesso sfocia nel paradosso, nell’assurdo, i protagonisti diventano caricature. Perché deviando dalla realtà mi sono sentito libero di comunicare e di sperimentare. Esiste davvero un signore barbuto che, ogni mattina, legge il suo libro al tavolino di un bar: il mio Nebbia è ispirato a lui, ma per esigenze narrative non può essere la riproduzione fedele. Così come esiste davvero un’osteria come quella dell’ex terzino».
Hai voluto sperimentare?
«Questo libro, per me, è stata per me una palestra nella quale ho provato ad arrabattarmi, ovvero a misurarmi, con ritmi, lingua e regole diverse da quelle del giornalismo. Non sono un grafomane, per me la scrittura è fatica, mi auguro che la lettura non sia altrettanta fatica, bensì un’occasione per sorridere e riflettere».
Perché il racconto breve?
«Perché non se ne può più di migliaia di romanzi, una valanga di romanzi, molti dei quali arrivano a far pentire il lettore di averli cominciati. Almeno, nel mio caso, su trentuno racconti, m’illudo che ce ne sia almeno uno che possa essere ritenuto interessante: e se non piacciono, uno può anche chiudere il libro senza rimanere con la trama a metà. Battute a parte, come ho accennato in precedenza, il mio vorrebbe essere l’inizio di un percorso narrativo. Il racconto breve mi è sembrato una scelta fatta su misura per debuttare. Quando e se mi sentirò pronto, proverò ad andare oltre e a migliorare».
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