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1943, l’acqua, il gelo, la furia: fuggire e combattere al confine

Nel Giorno della Memoria siamo andati a ripercorrere i luoghi degli ebrei che per salvarsi scappavano in Svizzera. Una storia che si intreccia con la lotta partigiana e le questioni strategiche del Reich

Sono rosse e dure come il ferro le rocce sulla riva, e l’acqua è ghiacciata.  Eppure c’è chi anni fa ci mise i piedi dentro, in pieno inverno, pur di salvarsi la vita.

Una storia sulle sponde del fiume Tresa che viaggia sui tanti binari della libertà, che al confine con la Svizzera a partire dall’autunno del 1943 significava salvezza per gli ebrei che cercavano la vita, e libertà invocata anche dai combattenti che per primi in Italia cercarono di affrontare le truppe occupanti tedesche e il regime sanguinario della repubblica sociale italiana.

I binari, come vedremo, non sono solo metafora di quel che avvenne da queste parti in tempo di guerra.

Vite fra le tante negli ingranaggi della storia: i partigiani, gli ebrei in fuga e i moltissimi prigionieri di guerra che cercavano riparo in Svizzera, «anche se molti si fermarono a combattere al fianco dei partigiani italiani», racconta Carlo Banfi, storico locale documentatissimo che sta per dare alle stampa un interessante volume che racchiude una sessantina di lettere scritte tra il ’43 e il ’45 da Mùnzingen (Foresta Nera), Recco e Bobbio dall’alpino Carlo Pastori della divisione Monterosa, formata da circa 20.000 uomini, costituita dai dirigenti della Rsi per combattere in ambito montano a fianco dell’esercito tedesco. E per l’addestramento con istruttori tedeschi e armi uscite dai magazzini della Wehrmacht, la divisione venne inviata in Germania per 6 mesi.

«Il fratello Bernardo (1935 – vivente) mi racconta invece di quello che accadeva in quegli anni a Voldomino di Luino, sul confine col Canton Ticino. C’è una parte che racconta degli espatri clandestini, anche di ebrei».

Per questo siamo andati sui luoghi in cui avvennero i fatti. Per documentare ancora una volta ma in maniera inedita quel desiderio di libertà ancora leggibile sui muri dei cimiteri nei paesini della Valcuvia e del Luinese, nei luoghi della memoria dove avvennero le fucilazioni e dove alcuni, all’epoca poco più che bambini ancora ricordano le urla dei torturati a due passi da dove si parcheggia l’auto per andare sulla ciclabile che collega i paesi della valle.

fiume tresa

Una storia che ha un suo punto di sintesi nella figura di don Pietro Folli, il parroco lunense di Voldomino, eroe ancora oggi ricordato con una targa sulla chiesa e che aiutò partigiani ed ebrei nella fuga dal confine colabrodo con la Svizzera: pochi si salvarono, tanti i catturati, altri “venduti“ per le taglie messe sui fuggiaschi.

«In quel periodo», spiega Banfi, «gli ebrei rifugiati in Svizzera furono in tutto 5.500-6.000, di cui 250-300 arrestati prima dell’espatrio o respinti. 500 passano il fronte al Sud. 29.000 vivono nella clandestinità. 1.000 entrano nella resistenza».

Oggi percorrere quei posti mette i brividi anche d’estate perché ogni passo racconta la sottile linea fra la vita e la morte. Da questo confine che parte da Creva poi Biviglione, poi Cremenaga passarono anche i partigiani in rotta dopo la battaglia del San Martino.

E su questo, Banfi, che negli anni di studi sulle carte è diventato pure crogiolo dell’aneddotica locale, racconta di un episodio legato a un carabiniere che vide i reparti partigiani scendere dalla montagna frusti dopo la battaglia, ma si voltò dall’altra parte e non diede l’allarme consentendo ai militari di salvarsi (militari a tutti gli effetti poiché appartenenti solo poche settimane prima alla fanteria del Regio esercito di stanza a Porto Valtravaglia).

Ma perché tanto accanimento verso chi cercava la libertà?

Ci sono due spiegazioni. La prima è argomento storico: dopo l’armistizio i tedeschi fecero scattare l’operazione “Achse” cioè l’occupazione militare della penisola e fra gli ordini c’era la cattura degli ebrei e l’annientamento delle forze di resistenza partigiane. Per questo, quasi in concomitanza, la caccia ebbe subito inizio. E se il ghetto di Roma – 16 ottobre 1943, 16 sopravvissuti su 1023 deportati – fu l’esempio più evidente del primo obiettivo, certamente lo fu anche l’attacco al San Martino dal 14 al 18 novembre del 1943.

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Ma poi c’è la questione locale, non solo tattica, ma anche strategica. Ci sia arriva attraverso una lettura originalissima offerta sempre dal Banfi: «I tedeschi erano ossessionati dalle infrastrutture. Questa parte della provincia aveva una efficientissima tramvia che da Varese portava fino a Luino, ma attraversava anche la Valcuvia e la Valmarchirolo e veniva utilizzata da molti ebrei per spostarsi verso il confine».

«Ma la vera importanza strategica dell’alto varesotto riguardava la ferrovia Gallarate-Luino che proseguiva, come oggi, su binari svizzeri. Questa linea era importantissima per gli approvvigionamenti e i tedeschi la utilizzavano per il trasporto dei feriti in patria: la particolare conformazione della linea consentiva ai convogli in caso di attacco aereo di potersi riparare all’interno delle frequenti gallerie».

Per questo il controllo del territorio in quel frangente divenne fondamentale: il San Martino si trova alle spalle di quella ferrovia, e perdere il controllo delle vette avrebbe potuto rappresentare un rischio sia per la ferrovia, sia per la tramvia sottostante.

Per questo tanto accanimento, per questo la furia, pagata in termini di vite umane.

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it
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Pubblicato il 30 Gennaio 2021
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