Damiano Bardelli: alba e tramonto di un pescatore sul Lago Maggiore, nel mondo che cambia
Ha 54 anni, nipote e figlio di pescatori, due braccia robuste, un solo colpo di remi ed è al largo senza nemmeno dover accendere il motore. Tutto il mondo a riva rimpicciolisce lasciandolo da solo con il suo lago e i pensieri
Un’ora prima dell’alba, la sua barca tira già una riga sull’acqua immobile, scendendo da nord, verso le Sabbie d’oro. Una riga d’argento e tutto intorno ha i contorni sfumati, ma non appena si alzeranno il vento, la luce e il sole, il lago cambierà colore. Damiano Bardelli, due braccia robuste, un solo colpo di remi ed è al largo senza nemmeno dover accendere il motore. Tutto il mondo a riva rimpicciolisce lasciandolo da solo con il suo lago e i pensieri, spesso enormi quanto il Mottarone, che vigila dall’altra sponda. «Si è in attesa, ti chiedi come andrà, perché ogni volta è diversa. E ti chiedi spesso se ha un senso continuare, ma poi la risposta c’è già, sebbene il lago sia avaro, certi giorni crudele nel suo essere vuoto».
Sorge il sole e Damiano tira le sue reti sulla barca, metro dopo metro. Intanto il lago decide cosa dargli e, spesso, non è abbastanza, ma se lo farà andar bene ugualmente. Pescava suo nonno, pescava suo padre, pesca lui, fino a quando riuscirà a farlo. «Lo faccio per amore verso il lago e per quello che rappresenta questo mestiere antico, che non può non perdersi per sempre».
Ha la casa alla Bozza, sulle rive del fiume Bardello, a poche centinaia di metri dalla foce sul Lago Maggiore, ufficialmente nel territorio di Besozzo, ma pochi metri più in là si è a Brebbia, e poco più a nord si è a Monvalle. «Vivo in una “fatto-pescheria”, un po’ fattoria, un po’ pescheria, tra i cavalli e le galline. E sulle rive del fiume vivono gli aironi e altri uccelli. L’altra mattina, sentendo un verso diverso dal solito, cerco di capire da dove viene e mi accorgo che su un tronco è arrivato pure un picchio nero che dovrebbe stare in montagna. Segno anche questo di un ambiente che cambia. Come è cambiato il modo di fare il mio lavoro, con mia moglie che mi sta dando una mano, vendendo il pesce ai privati. Con i ristoranti e i commercianti si lavora sempre meno, non ci si tira fuori da vivere. Ma insisto a vendere davvero pesce a chilometro zero, anzi, da qui alle mie reti è meno di un chilometro».
Un ambiente che cambia, un lago che cambia, un mestiere che per forza di cose cambia: tutto si evolve, per non morire. Resta immutato un sentimento. E uno sguardo che quando contempla il lago è diverso, lo si avverte bene. «Ho cominciato a pescare quando avevo cinque anni. Non vedevo l’ora di uscire in barca con mio nonno, con mio papà, con mio zio. Tutti pescatori, noi Bardelli della Bozza». Suo padre, in realtà, non voleva che facesse anche lui il pescatore, mestiere troppo duro, ma Damiano aveva la testa ancora più dura: «Lui avrebbe voluto un destino più comodo per me, ma io scelsi quasi per protesta di fare il panettiere. Solo che presto i nodi sono venuti al pettine, io a lavorare dentro a quattro mura non riuscivo. Non era il mio mestiere quello. Io volevo stare nella natura». Sempre, per sempre dentro a un’alba o a un tramonto. «Sì, su una lancia di sei metri che mi sono comprato e che mi ha permesso di mettermi in proprio. Volevo qualcosa che fossi in grado di gestire da solo».
La sua barca è ormeggiata ai margini di un canneto che da mesi è miseramente in secca: «Il lago è magro, troppo magro. Il canneto è asciutto, rinsecchito e alcuni pesci non riesco andare in frega, che vuol dire che non si riproducono. Il lavarello, per esempio, va in frega in questi ambienti, che, se non sono più gli stessi, è un grave problema per questo pesce: il lavarello, per assurdo, non viene nemmeno considerato autoctono del nostro lago e, di conseguenza, non è possibile fare la semina, ovvero metterci le uova artificialmente. Si deve riprodurre da solo, ma con il cambiamento climatico e la siccità…». Le magre abituali, le piene sempre più rare: «E anche le piene sono importanti, una volta ce n’erano due all’anno e il canneto si ossigenava. Oggi nemmeno gli uccelli ci nidificano più».
Tuttavia, la passione non si spegne: «Questo mestiere non lo voglio far finire. E non voglio nemmeno continuare a lamentarmi e basta». Ostacoli infiniti, rema con il vento contro, non soltanto quello che del lago, ma soprattutto quello della burocrazia e dell’indifferenza: il pescatore d’acqua dolce è una specie a rischio d’estinzione al pari delle alborelle. «Che non si trovano quasi più».
Sul Lago Maggiore, poi, la pesca è ancora gestita da logiche feudali, sì avete letto bene, leggi e concessioni che risalgono a cinque secoli fa, grazie ai quali l’80% del lago è sotto il controllo della famiglia Borromeo e il restante è suddiviso tra una minima gestione provinciale e altri piccoli fondi privati, con l’area di Angera e Ranco che rientra in un uso civico del Seicento. Bardelli, per esempio, ha acquisito il diritto di pescare solo nello spazio di lago tra le Sabbie d’Oro e il Lido di Monvalle, pagando un affitto ai proprietari di questo fondo. «Il lago di Como, per esempio, è tutto a gestione provinciale e i pescatori professionisti pagano la loro quota annuale, ma, ovviamente con regole precise, sono liberi di pescare dove vogliono. Io, invece, devo stare molto attento a non sconfinare. E mi accontento quel che mi dà una fettina di lago: fatico, per esempio, a trovare lavarelli perché con l’acqua bassa che diventa più calda, i lavarelli risalgono più a Nord».
Più della tramontana e dell’inverna, più dei temporali e delle correnti, a mettere in difficoltà quelle braccia, quei remi e quella barca sono mille questioni, regole, divieti, incombenze, obblighi, anche oltre il limite della vessazione. Senza l’ombra di un politico che si prenda a cuore il destino degli ultimi pescatori d’acqua dolce: «Siamo una manciata in tutta la sponda lombarda, siamo troppo pochi, non contiamo nulla, non destiamo interesse. E spesso la gente non sa nemmeno che esistiamo, fa confusione, ci accomuna i tanti pescatori amatoriali, dilettanti, sportivi. Siamo pochissimi a farlo di mestiere. Ci meritiamo, io credo, di essere tutelati, se non si vuole perdere un’arte, una tradizione in pochi anni. I prossimi». Damiano scivola nell’amarezza, ma appena se ne accorge, reagisce, ha uno scatto d’orgoglio, sotto lo sguardo dolce della moglie Laura: «No, non voglio sembrare quello che si lamenta e basta: la pesca è come una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti capita» e chiude la polemica con una risata.
Come un colpo di remi contro la corrente, a spezzare le onde, Damiano spiega il suo “non arrendersi”: «Vuol dire sforzarsi a trovare soluzioni, vuol dire imparare ad adattarsi al mondo e al lago che cambiano». Come, per esempio, inventarsi il “fish and chips” di lago, girando per le spiagge e le piazze con un furgoncino adattato a friggitoria: «Coinvolgendo anche una delle mie due figlie, abbiamo cominciato a proporre questi spuntini con il fritto in cartoccio, straccetti di pesce che la gente scopre appetitosi. E dimostriamo tra l’altro che il pesce povero ha delle chances».
Pesce povero è anche il pesce nemico, quello che invade e distrugge quel che c’era: «Oggi l’evoluzione e la sopravvivenza della fauna del lago è condizionata moltissimo da alcune specie invasive, molto aggressive. Il siluro e il gardon, su tutti. Pesci che nel lago qualcuno li ha messi, per stupidità o errori. Non sono arrivati dal cielo, ma ora ci sono. E che si fa? Cominciamo a mangiarli». Anche il pesce siluro, il gigante del lago, che sta distruggendo interi ecosistemi: «Sì, il siluro ha una carne bianca molto buona, senza spine. Va sfilettato e sgrassato, ma è come una rana pescatrice, per farmi capire. Sono buoni i siluri che arrivano al massimo a 7, 8 chili. Quando diventano più grossi, la loro carne è troppo grassa».
Damiano Bardelli contro i pregiudizi sorride e insiste: «La gente è diffidente, ma io li sfido a provare. In altri Paesi europei, anche il siluro si mangia abitualmente, qui ci sono pregiudizi che non hanno senso». Siluro che in queste settimane non si può pescare. I regolamenti vietano l’uso delle reti adatte alla sua cattura perché, secondo la legge, disturberebbe la frega attualmente in corso di pesci come il Luccio e il Persico: «Solo che non si considera che la frega avviene vicino alle coste, mentre il siluro lo si pesca con la rete in mezzo al lago…».
Damiano sfida i troppi venti e le mille correnti contrarie sì, mettendo in tavola il siluro e proponendo il gardòn come alternativa per il carpione: «E’ l’ideale, ottimo davvero. Se non hai i lavarelli o altri pesci della tradizione qui, usiamo il gardòn per il carpione e per altre ricette». I siluri hanno decimato le anguille: «Poche, ma ci sono ancora, nelle legnaie che ancora esistono sul fondo, eredità antica che i pescatori professionisti del lago mantengono». E i gardòn hanno quasi estinto le alborelle: «Ma non solo questo pesce, anche altri fattori, dai cormorani ai depuratori, hanno deciso il destino di questo pesciolino».
Ha 54 anni, Damiano Bardelli, e una vita scandita dai ritmi della pesca: 50 metri di reti da posare al tramonto e da tirare di nuovo in barca all’alba. E tutto il resto: la frega e la semina, i divieti e le stagioni, le piene e le secche. La scelta è obbligata: adattarsi a quel che resta nella rete o smettere. Luccio, trota, tinca, lavarello, persico, agone, salmerino, carpa sono una manna non sempre concessa. E se il mondo cambia sott’acqua come fuori, si pescano i siluri e i gardòn.
Il mondo cambia, come sulla riva del Bardello, fuori di casa: «Una volta qua, era un continuo lampeggiare del Martin Pescatore, con le sue piume azzurre. Ora non lo si vede più, il fiume è in secca, non ci sono più i pesciolini che sono il suo nutrimento. Però, l’altra mattina, mai visto prima, ecco il picchio nero».
Il mondo cambia, tranne le albe e i tramonti sul lago, e quella barca che, prima del sorgere del sole, esce dalla Bozza e tira una riga sull’acqua. Eppure, anche quella riga non è mai la stessa.
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