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Padri e lavoro: il diritto alla genitorialità ancora negato

Solo l'11% dei padri lavoratori è soddisfatto del proprio ruolo. Quasi il 66% dei padri lavoratori sperimenta livelli medio-alti di esaurimento emotivo e burnout, mentre oltre il 75% non si sente realizzato nella propria situazione.Cristina Di Loreto spiega come il modello culturale italiano ostacoli la paternità attiva

Economia varie

«Il problema non è solo che i padri non riescono a trovare un equilibrio tra lavoro e famiglia, ma che non viene loro riconosciuto il diritto di essere presenti quanto le madri». A parlare è Cristina Di Loreto, psicoterapeuta e fondatrice di Me first, startup che offre programmi specifici di prevenzione, preparazione e supporto per aiutare genitori attuali e futuri, manager e team a conciliare vita-lavoro-accudimento in modo appagante e favorendo un equilibrio sostenibile.

Me First, in collaborazione con Labcom, former spin-off dell’Università di Firenze, ha condotto una ricerca su un gruppo campione di 373 padri lavoratori, con un’età media di 40,81 anni, da cui emerge che solo l’11,10% per cento è soddisfatto di come vive il proprio ruolo paterno. Un dato che rivela un gap culturale enorme, rispetto alla conciliazione dei tempi di vita e lavoro.
Su questo argomento Cristina Di Loreto il 19 marzo, Festa del papà, terrà a Varese a Palazzo Estense con inizio alle 18 e 30 un incontro dal titolo “Come stanno i padri lavoratori?” 

Dottoressa Di Loreto, quali sono le conseguenze principali di questa insoddisfazione dei padri?

«Quasi il 66% dei padri lavoratori sperimenta livelli medio-alti di esaurimento emotivo e burnout, mentre oltre il 75% non si sente realizzato nella propria situazione professionale. Tra le cause principali, emerge la difficoltà nel conciliare lavoro e famiglia, aggravata dal fatto che in Italia il congedo di paternità obbligatorio è di soli 10 giorni per i lavoratori dipendenti. Una misura di fatto simbolica ma non sufficiente per vivere appieno il proprio ruolo di padre. Tenere sempre acceso il faro della ricerca scientifica ci permette di conoscere il fenomeno su cui interveniamo».

Su questo tema in Italia c’è una resistenza culturale?

«Quando si parla di caregiving e genitorialità, dai dati e dalle risposte della ricerca quel problema emerge in tutta la sua portata culturale: nel nostro paese la madre viene percepita come l’unico caregiver. Se si parla di bilanciamento e conciliazione dei tempi di vita e lavoro i padri non sono ingaggiati perché culturalmente questo aspetto non gli viene affidato».

La donna come unica caregiver è una caratteristica che ritrovate anche altri paesi?
«Sì, alcuni aspetti si ritrovano anche in altre realtà. Per esempio: il fatto che la donna viva il mito della madre perfetta, quello che in letteratura viene chiamato il mito della della dea. La madre che custodisce tutti i segreti e che fa tutto: veste i bambini, gli fa il bagnetto e li mette a letto. Parliamo di donne che si sentono in colpa e inadeguate e che, per questo motivo, cercano di fare sempre di più. Gli inglesi la definiscono maternal gatekeeping che sta a indicare l’iper-presenza della madre nelle azioni di cura del figlio. Però tutte inseguiamo questa iper presenza».

Con quali effetti?
«Dal punto di vista psicologico, danneggia la crescita dei figli e anche l’equilibrio di coppia. Uscire dal nostro ruolo ci fa sentire in colpa, ma in realtà è quello che dovremmo fare per poter rendere tutto più equilibrato. Di contro c’è un uomo che se anche volesse fare il padre viene contrastato da questa iper-presenza e soprattutto dalla cultura prevalente».

Mi fa un esempio di cultura prevalente?
«Spesso gli uomini, di fronte alla richiesta di un congedo parentale, si sentono dire: “Quindi vai in vacanza” o “Fai il baby sitter”. Questo spiega perché sia solo l’11,10 per cento dei padri intervistati a sentirsi soddisfatto del proprio ruolo. È ancora troppo poco il tempo che possono dedicare ai figli rispetto a quello che vorrebbero. Le organizzazioni e il legislatore ancora non hanno capito che la figura del padre, nei primi mesi di vita del bambino, è fondamentale tanto quanto quella della madre. Sminuire quel ruolo è un problema perché oggi invece c’è n’è bisogno sempre di più, visto che è in atto una rivoluzione di genere in cui le donne prendono sempre più spazio nel mondo economico, sociale, politico e professionale e pertanto serve un equilibrio anche dal punto di vista della cura. La maternità non è un evento individuale, bensì un evento sociale. Questa espressione la si dovrebbe declinare anche per la paternità. Non dimentichiamo che gli studi dicono che un padre presente impatta notevolmente sul benessere psicosociale e relazionale della crescita di un figlio».

I dati sull’occupazione femminile in Italia rivelano che l’idea del “sacrificio” materno sia ancora predominante. Le imprese si sono organizzate per accompagnare in modo coerente questa rivoluzione?
«Se le donne rimangono fuori dal mondo del lavoro, non si fa business e nemmeno economia, come invece si potrebbero fare. Vorrei chiarire un punto importante: non sto affrontando il tema con un taglio femminista. Per noi questo progetto riguarda il benessere psicologico. La cultura aziendale è ritagliata sulla figura maschile. Quindi nel momento in cui viene a mancare l’uomo, perché si dedica a uno spazio che è sempre stato pensato per la donna, qualcosa vacilla. Ci sono delle imprese virtuose, con alcune delle quali collaboriamo, che hanno dei congedi di paternità che sono migliorativi rispetto alla normativa esistente e che permettono agli uomini, nel momento in cui diventano padri, di prendere anche 3 mesi pagati al 100% dalle aziende. Si tratta di uno sforzo economico per supportare questa nuova cultura. Queste realtà non sono tante ma ci sono. E saranno destinate a crescere sulla spinta dell’Europa sui temi della parità di genere. Se solo il nostro tasso occupazionale femminile salisse a livello della media europea il nostro Pil aumenterebbe molto di più di quel 2 per cento degli ultimi anni. Detto questo possiamo anche affermare che le aziende sono impreparate e stanno iniziando ora a esserne consapevoli»

Fare formazione su questi temi ai manager in azienda può aiutare a superare il gap culturale?
«Non siamo pronti a fare questo cambiamento perché le figure manageriali spesso non vengono coinvolte in programmi di allineamento su come gestire la genitorialità e soprattutto come affrontare le richieste di un padre che vuole prendere permessi per svolgere appieno questo ruolo. Secondo una recente ricerca americana i padri che stanno sempre fuori casa e non sono impegnati nella cura dei figli, hanno il 40%  di probabilità di avere accanto una donna che lavora. Mentre I padri che guadagnano un po’ meno ma sono più presenti, hanno il 90% di probabilità di avere accanto una donna che lavora. Quindi spostare questa visione cambia tutto ma per spostarla occorrono strumenti culturali, sociali e legislativi».

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Su questo argomento Cristina Di Loreto il 19 marzo, Festa del papà, terrà a Varese a Palazzo Estense con inizio alle 18 e 30 un incontro dal titolo “Come stanno i padri lavoratori?” 

Pubblicato il 17 Marzo 2025
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