«Dispenso i ricordi alla classe operaia in pensione»
Bruno Marcozzi custodisce i cartellini che le centinaia di suoi ex colleghi timbravano all’inizio del turno di lavoro nella fabbrica chiusa. Oggi è pronto a raccontare la sua storia che servirà a costruire un progetto teatrale
Bruno Marcozzi passò 32 anni della sua vita in un solo amato e combattuto posto di lavoro, la tessitura Stehli di Germignaga e quindi non c’è nulla di strano se passeggiando di fronte all’uscio della grande fabbrica chiusa, un anno fa, notò la porta divelta e un grande trambusto all’interno, probabilmente opera di qualche vandalo.
Settantaquattro anni, andò in pensione giovane e dal primo giorno decise di dedicare parte della sua vita agli altri con opere di volontariato.
E lo fece, a modo suo, anche quella mattina, quando si mise a raccogliere da terra, appena fuori l’uscio della “sua” fabbrica una miriade di fogli, alcuni molto vecchi con scritti a mano e stampati nomi e cognomi, vie e numeri civici, età, mansioni: erano i cartellini, le schede dei dipendenti della gloriosa Stehli di Germignaga, quella che vengono quasi le lacrime agli occhi a raccontarla e a guardarla oggi, casermone a metà strada fra il Tresa e la prima collina che sovrasta il paese.
Bruno non ci pensò neppure un momento, e dopo aver raccolto tutto, il suo tesoro di ricordi ora lo custodisce per metà in cantina e per l’altra metà nella memoria «ma tanti, tantissimi di quei cartellini li ho regalati ai miei ex colleghi di fabbrica. Persone con le quali ho lavorato per anni spalla a spalla. Mi chiedevano: “Bruno ma per caso il mio cartellino ce l’hai?” E io glielo ridavo. “Hai trovato qualcosa che riguarda la mia famiglia?”. Pronti. E loro erano felici di portarsi a casa qualcosa che gli appartiene perché gli appartenne».
Il suo cartellino, con su scritto il suo nome, Bruno Marcozzi non l’ha ritrovato: «Chissà cos’altro ci sarà dentro alla fabbrica, non oso immaginare quanti oggetti, quante storie».
Ricordi che il primo di aprile Bruno esternerà pubblicamente perché invitato a “Limes, confini che si incontrano” un progetto che intende favorire l’avvicinamento dei cittadini, italiani e stranieri, ai luoghi della cultura del nostro territorio sfruttando il tema del lavoro, attraverso il quale verranno raccolte storie di ex operai della fabbrica e di lavoratori e lavoratrici straniere che confluiranno in una performance pubblica.
Ma com’erano quegli anni? E che testimonianza porterà Marcozzi?
«Non so cosa avranno da chiedermi, ma io so cosa raccontare della mia vita lavorativa, per esempio che cominciai a lavorare a 19 anni, appena dopo il militare. A dire il vero lavoravo anche prima di partire, ma una volta arrivata la cartolina ti licenziavano. Dopo due anni, al ritorno dalla naja, invece, l’assunzione».
Era il 1960. Uscì dalla fabbrica più di trent’anni dopo con un mondo del lavoro cambiato completamente. Ed era solo l’inizio.
«A raccontarlo oggi non ci si crede, ma qui alla tessitura Stelhi lavoravano 700 persone. Nei primi anni 60’ venivano da Bedero, Bonera, Montegrino. Arrivavano a lavorare a piedi, i più fortunati in bicicletta. Ricordo ancora una signora, amica di mia mamma che a volte, d’inverno, quando nevicava tanto, si fermava a dormire da noi per non affrontare da sola e al buio il ritorno a casa con mezzo metro di neve».
La tessitura Stehli. La chiamavano “le ferrovie dello stato”: trovare posto lì già ai tempi non era semplice, ma una volta entrato non uscivi più.
La storia di Bruno, insomma.
«Mia mamma lavorava lì. Anche mio fratello, mia zia, tre cugine: la tessitura dava da mangiare a famiglie intere. Io facevo il turno di notte e lavoravo in filatura, nei locali proprio di fianco al Tresa. Pensi che c’era così tanto lavoro che esisteva anche una seconda unità produttiva ce chiamavamo “presede”, dove le macchine andavano ad acqua.
Nel mio reparto eravamo una decina e i “piantelli” giravano a ciclo continuo, giorno e notte».
La fabbrica era tutto, era nei pensieri nelle vite di tutti. «Pensi che nella casa dove abitavo non c’era l’acqua corrente, prendevamo l’acqua fuori e la portavamo in casa. La direzione dava la possibilità di andare in fabbrica a lavare i bambini sotto le docce».
Cose oggi impensabili. Eppure l’economia c’era, i ricavi premettevano di avere alle porte di Luino una fabbrica con centinaia di addetti. «Ci fu l’ondata di immigrazione dal sud e la necessità di formare mano d’opera specializzata. “Bruno ci sei?” – mi chiamavano, la domenica – . E io andavo».
Poi le cose sono cominciate a cambiare; poi ad andare male.
«Molti operai formati da noi, andarono a lavorare in Svizzera, dove gli stipendi erano ben più alti. Poi vennero introdotte nella produzione macchine sempre più sofisticate, che consentivano di produrre di più e con meno operai. Partirono le prime casse integrazioni e i licenziamenti. Io ero un sindacalista. Ricordo una volta, bloccammo la strada perché l’azienda aveva annunciato il licenziamento di 35 persone. Ci furono delle denunce, poi ritirate. Brutti momenti».
Un processo che non poteva essere fermato. Fino ad arrivare al 2001, quando i cancelli di quel fabbricone color magenta si chiusero, facendo depositare la prima polvere sugli schedari con chiusi dentro i destini di migliaia di uomini e donne.
«Sui cartellini c’era scritto di tutto, vita, morte e miracoli dei dipendenti. Ne possiedo uno appartenuto ad una lavoratrice del 1882 che contiene, oltre ai dati anagrafici, anche il numero dei figli e i debiti contratti. Magari porterò qualcuno di quei cartellini all’appuntamento di venerdì, così, solo per far vedere cos’era lavorare lì un tempo. Lì nella mia fabbrica».
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