Il vescovo Grampa: “Sperare è la cosa più difficile, anche se è lei che trascina le altre virtù”
Intervista al vescovo emerito Pier Giacomo Grampa, originario di Busto Arsizio e per molti anni alla guida della diocesi di Lugano, sul significato del Natale
Per quest’anno ci è andata ancora bene: possiamo continuare a dirci “Buon Natale”. L’Unione Europea ha fatto marcia indietro sulla grottesca idea di indirizzare gli auguri su forme generiche per non urtare alcuna sensibilità. L’intervista con un vescovo non poteva che partire da questo abbrivio. A rispondere, affrontando poi l’itinerario del Natale nel nostro tempo è Pier Giacomo Grampa, originario di Busto Arsizio e per dieci anni alla guida di una confinante comunità d’anime, la diocesi di Lugano. È un vescovo che è stato spesso a Varese e nel Varesotto, invitato per conferenze e dibattiti e a presiedere liturgie di festa e amministrare i sacramenti. Da 8 anni è emerito, ma la sua agenda resta carica di impegni: è rimasto un infaticabile camminatore dell’annuncio della Buona Notizia, ancor più di fronte al progressivo inaridirsi del paesaggio sociale e delle presenza di fedeli nelle chiese (ogni nuova generazione frequenta meno della precedente). Questa intervista, natalizia ma non solo, è un’ulteriore tessera del mosaico del suo animo e delle sue chiaroveggenze pastorali.
Per non turbare chi non festeggia il Natale, ci sono quelli che vorrebbero oscurare questa ricorrenza, opponendosi a tutto quanto fa riferimento all’evento di Betlemme. Non è un brutto esempio di rifiuto del dialogo e della diversità in un’epoca in cui si inneggia alle aperture?
«Se si opponessero a quello che contraddice il Natale autentico e ne snatura l’immagine (vedi Babbo Natale o Natale con le renne) darei anch’io il mio contributo. Ma il Natale autentico, il Natale che fa parte della mia identità, ispira storia, arte, poesia, musica, letteratura, cultura, non può urtare la sensibilità di nessuno. Per noi poi è civiltà. Mai potrei rinunciarvi: sarebbe come pretendere di rinunciare alla propria lingua, al proprio paese, alla propria tradizione, al proprio vissuto, al proprio essere. Sono cedimenti incomprensibili. Domando rispetto per chi la pensa diversamente, ma la cancellazione delle diversità è cancellazione dell’umanità.
Natale ci riporta al mistero di un Dio che si fa bambino e di un ponte che unisce cielo e terra. A Betlemme continua o ricomincia qualcosa?
«A Betlemme quell’evento è continuazione di un disegno che è Mistero. In noi devono ricominciare sempre la scoperta e il rispetto, la libera comprensione. Non è il Natale che bisogna proibire, non vi pare pretesa assurda quella di cancellare secoli di storia? Semmai sono le degenerazioni e corruzioni del Natale e di quello che ha significato ed ha portato l’umanità ad offuscarne l’immagine. Superiamo le presunzioni ideologiche che non sanno accettare il reale, capirlo, rispettarlo e viverlo in libertà per quello che è. Bisogna essere ingenui o presuntuosi a ridurre tutto a buone feste. Buone feste per chi ? Buone feste perché?»
Al di là del significato che la cristianità attribuisce al Natale, perché questa festa continua a coinvolgerci?
«Perché è portatrice di valori che si reggono da sé e sono validi, attuali in sé stessi, di cui il Natale è solo immagine efficace. Annuncio di pace e di gioia, di perdono e di fratellanza, accoglienza dell’altro, del diverso, del migrante, del profugo; coinvolgimento dei poveri e degli emarginati, ispiratore della poesia della semplicità e della spontaneità, del sentimento di fedeltà e di dono, di assistenza e vicinanza. Sarebbe un delitto di iconoclastia distruggere, oltre i valori del Natale, la nostra storia, la nostra arte, la nostra poesia e musica. Sarebbe un vero impoverimento».
SALDEZZA DEL CREDERE E SERENITÀ DEL VIVERE
C’è chi intravede Dio nell’inquietudine dell’umanità sofferente, chi nella dolcezza di un abbraccio di comprensione e di aiuto. Dalla sua esperienza di uomo, prete e vescovo non ha l’impressione che oggi la gente si aspetti dai pastori la pienezza del cuore più che lo scatto di una fede teologica?
«Premesso che le due dimensioni dell’inquietudine e dell’abbraccio non si elidono l’un l’altra, è indubbio che la situazione di pandemia, ma anche l’insicurezza dei tempi in cui viviamo, fanno sentire il loro peso. L’insegnamento ripetuto ed insistito di Papa Francesco sulla misericordia e la tenerezza dell’amore di Dio invita a mostrare la pienezza del cuore che è ascolto, accoglienza, apertura, condivisione, presenza, cammino assieme. È questo che oggi innanzitutto la gente si aspetta da noi. Se questa esperienza dell’abbraccio e della tenerezza si accompagna però all’approfondimento teologico della fede, ne guadagnano la solidità del nostro credere e la serenità del nostro vivere».
Come si fa ad andare incontro e ad aiutare chi è alla ricerca di un percorso spirituale, fuori da formule e moralismi?
«Incontrandolo sul suo cammino, avendo un atteggiamento di presenza, dunque di uscita, di condivisione, di accoglienza delle domande, ascolto degli interrogativi, delle ricerche e delle attese dei nostri compagni di viaggio. C’è un’icona che mi pare emblematica, quella del pellegrino misterioso, che la sera della prima Pasqua si affianca ai due discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-35) e condividendo il cammino, ascolta i loro discorsi, accoglie e fa suoi i loro dubbi, condivide la loro ricerca di verità e risponde fino a condividere con loro il pane della cena. “Resta con noi, Signore, perché si fa sera”. Il dono di restare, di ascoltare, di rispondere, di condividere».
Questo sconvolgimento del covid ha dimostrato al mondo che c’è una sola grande dominatrice ed è l’universale sensazione di fragilità. Come ci ritroveremo alla fine: più uniti o più soli?
«Occorre riconoscere che se davvero si è trattato di una acquisita scoperta di fragilità, è da considerare quanto mai importante, preziosa e salutare. Questo uomo contemporaneo sempre più presuntuoso, orgoglioso del suo essere e delle sue scoperte, del suo progresso e dei suoi sogni avveniristici, ha bisogno di riscoprire la dimensione della sua fragilità, senza che porti, come sta avvenendo, molti al suicidio. Alla fine ci ritroveremo più uniti o più soli a dipendenza del modo con cui abbiamo colta, accettata, elaborata e condivisa la nostra dimensione di fragilità».
PERCHÉ LA SPERANZA NON SIA SOLO ILLUSIONE O DELUSIONE
A ogni fine d’anno è naturale chiedersi che cosa abbiamo fatto della nostra vita. Come persone e come comunità dove stiamo andando?
«Non è detto che la direzione di marcia delle singole persone sia identica a quella della comunità. Nonostante tutti i condizionamenti della politica, dell’economia, della cultura prevalente, resta la libertà di non lasciarsi condizionare: la libertà dai condizionamenti, la libertà per progetti alternativi, la libertà di chi assieme ad altri vuole costruire visioni diverse. Certo occorrono coscienza critica e discernimento attento, per non farci travolgere dalle mode inconsistenti e superficiali, occorre coltivare tutta la libertà di cui siamo capaci nella sua triplice accezione: “libertà da”, “libertà per”, “libertà con”».
Lo scrittore David Grossman nel suo più recente libro “La vita gioca con me”, scrive che la speranza è lanciare un’ancora verso il futuro per poi aggrapparsi alla cima dall’ancora e tirarsi fuori. Pur bendati da mascherine, non possiamo però ignorare lo sguardo dell’altro. Come si può ridare slancio alla speranza, alla comprensione e alla fiducia?
«Il tema della speranza fu l’argomento della mia ultima Lettera pastorale, dal titolo “Rafforzare la speranza che è in noi”. Sulla speranza ha scritto con efficace suggestione un poeta francese, Charles Péguy, nel “Portico del Mistero della seconda virtù” con immagini eloquenti, come: la speranza questa bambina, la preferenza di Dio per la speranza, sperare è la cosa più difficile, anche se è lei che trascina le altre virtù, ama quello che sarà, e si leva tutte le mattine. Ma la speranza, perché non sia illusione o delusione, dev’essere accompagnata da una base solida, cioè da una fede che ne garantisca la solidità e dalla carità che ne dispiega i frutti e ne distribuisce i benefici, altrimenti da sola la speranza finisce per essere un vuoto desiderio o una pia illusione».
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