La strada ad Almirante e la “difesa della razza”
Così lo storico varesino Enzo La Forgia: "Mi piacerebbe che fossero riprodotti, accanto al suo nome, gli articoli che scrisse per «La difesa della razza»"
Sulla questione della proposta di dedicare una strada a Giorgio Almirante ci viene segnatalo questo intervento proposto da Enzo R. Laforgia, professore di storia e consigliere comunale di Varese, recentemente pubblicato da Rmf Online.
Il 5 agosto del 1938 vide la luce il primo numero della rivista «La difesa della razza». L’immagine di copertina proponeva una sintesi efficace della politica discriminatoria che il fascismo aveva inaugurato in Africa orientale sin dal 1936 e che, proprio a partire da quella stessa estate, avrebbe individuato nell’ebreo il suo bersaglio privilegiato. In quell’immagine fotografica, infatti, un braccio armato di gladio separava il tipo “ariano”, fissato in un marmoreo profilo greco-romano, da una grottesca rappresentazione dell’ebreo e da un “africano” o “negro” (nella foto). L’indirizzo razzista della nuova testata era ribadito dalla citazione posta in esergo e ripresa dal XVI canto del Paradiso dantesco: «Sempre la confusion delle persone / principio fu del mal della cittade».
Questa iniziativa editoriale, voluta dallo stesso Mussolini, aveva come obiettivo quello di «volgarizzare i principi e la politica del razzismo fascista». Tant’è vero che già il giorno dopo, il 6 agosto, il ministro dell’Educazione nazionale, Giuseppe Bottai, sollecitò i rettori delle università affinché negli atenei fosse garantita la massima diffusione della rivista. Lo stesso invito, ad anno scolastico iniziato, il ministro rivolse a tutte le scuole del Regno, suggerendo di differenziare le modalità di utilizzo didattico della rivista a seconda della diversa età degli studenti:
«Nella scuola di primo grado, coi mezzi acconci alla mentalità dell’infanzia, si creerà il clima adatto alla formazione di una prima embrionale coscienza razzista, mentre nella scuola media il più elevato sviluppo mentale degli adolescenti, già a contatto con la tradizione umanistica, attraverso lo studio delle lingue classiche, della storia della letteratura, consentirà di fissare i capisaldi della dottrina razzista, i suoi fini e suoi limiti».
Direttore della «Difesa della razza» fu Telesio Interlandi, già direttore del «Tevere» di Roma, che in quello stesso 1938 diede alle stampe, per l’editore Tumminnelli & C., una raccolta dei suoi articoli antisemiti dal titolo Contra judaeos. Nel recensirlo dalle colonne del «Corriere della Sera» il 1° novembre di quell’anno, Guido Piovene ne ricavò la seguente conclusione: «Gli ebrei possono essere solo nemici e sopraffattori della nazione che li ospita».
E del resto, sfogliando oggi le pagine di quel periodico, l’ossessione antiebraica, la paura per un pericoloso contagio ebraico, emerge prepotentemente.
In un articolo dal titolo Roma antica e i giudei (a. I, n. 3, 5 settembre 1938), si legge ad esempio che gli ebrei da sempre avrebbero tentato di minare la civiltà occidentale, «adoperandosi in ogni modo per scalzare le basi dell’Impero romano» e che per questo già i romani avevano introdotto provvedimenti «atti a fermare l’arroganza ebraica».
Che il razzismo fascista fosse un razzismo fondamentalmente biologico, viene spiegato chiaramente in un articolo intitolato Né con 98 né con 998 (a. I, n. 6, 20 ottobre 1938): «Si parte dal fatto biologico fondamentale – esistenza di una razza italiana – e si giunge al gigantesco fatto politico: esistenza e potenziamento dell’Impero italiano». In nome di questo principio, l’autore dello scritto sosteneva la bontà dell’epurazione razziale in atto nelle università e nelle scuole. Del resto, «quei 98 professori [espulsi dall’università] erano ebrei, quindi non erano italiani, quindi non appartenevano che in apparenza, ai puri e semplici effetti amministrativi, alla scuola italiana. Erano un corpo già avulso da quello della nostra vita culturale; adesso tale separazione è stata sanzionata dalla legge».
Ovviamente, la semplice espulsione non avrebbe risolto il problema e non avrebbe dovuto far abbassare la guardia: bisognava da quel momento in poi procedere ad un’attenta e chirurgica eliminazione della componente ebraica dai libri di testo in uso nelle scuole. «[…] Occorre por mente – continuava l’autore nella stessa sede – a due gravissimi pericoli. Il primo è che gli autori ebrei cacciati dalla porta rientrino dalla finestra, attraverso un semplice mutamento di nomi sulle copertine […]. Il secondo è che non si faccia, e sollecitamente, la necessaria pulizia anche fra i libri di autori ariani. Era in atto un processo di ebraizzazione della scuola italiana; e lo si è tempestivamente troncato. Troncato alla radice; ma alcune propaggini – quelle costituite dai cosiddetti ebraizzati – sono rimaste in vita e a vivere, e peggio, a generare, continueranno, se non si provvede in tempo».
Con altrettanta veemenza viene denunciata la minacciosa e subdola penetrazione dell’ebraismo nel mondo della carta stampata. Si legge, a tal proposito, nell’articolo intitolato appunto Giornalismo (a. II, n. 17, 5 luglio 1939), che «Nella manomissione della cultura e della vita politica italiana operata dagli ebrei, la scalata al giornalismo occupa un posto di primissimo piano». È questo un articolo ricco di nomi e di esempi, volti a documentare «l’antitalianità della stampa ebraica italiana». Gli ebrei – si legge – «usciti appena dai ghetti [nei primi anni dell’Ottocento] e circondati ancora dalla salutare diffidenza che per secoli li aveva quasi ovunque segregati dal popolo, sentivano il bisogno di un’arma che consentisse loro di spargere largamente il mal seme dei principî dell’Ottantanove, di operare nelle coscienze la massima confusione possibile tra tali principî e quelli che dovevano presiedere al vero Risorgimento d’Italia, di addivenire infine alla costituzione di quella Internazionale ebraica, che più tardi Crémieux avrebbe realizzato, ma che fin dai primordi dell’Ottocento era nelle aspirazioni di tutti i giudei “benpensanti”».
La matrice biologica del razzismo fascista fu ribadita, in polemica rispetto ai sostenitori del cosiddetto razzismo “spirituale” alla Julius Evola, collaboratore della stessa rivista, in un articolo intitolato …Ché la diritta via era smarrita…(a. V, n. 13, 5 maggio 1942). «Il razzismo nostro – troviamo scritto in questo testo – deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. […] Altrimenti, finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come han potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza bisogno di pratiche laboriose e dispendiose – fingere un mutamento di spirito, e dirsi più Italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si posse imporre l’alto là al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue».
All’epoca in cui erano pubblicati questi scritti era già iniziato il processo di esclusione degli italiani ebrei dalla società civile. Sin dal settembre del 1938, gli italiani ebrei (il cui esiguo peso demografico era stato accertato da un apposito censimento avviato il 22 agosto precedente) erano stati privati dei diritti civili e politici fondamentali. Sin dal settembre del 1938, fu messo in moto quel processo che avrebbe poi privato gli italiani ebrei della loro stessa vita. E questo fu possibile, nell’indifferenza pressoché totale della popolazione, anche grazie alla martellante opera di propaganda, che riproponeva insistentemente temi ed argomenti come quelli di cui abbiamo cercato di dare un piccolo e sgradevole assaggio.
Gli articoli che abbiamo citato (ma potremmo citarne molti altri ancora, dal momento che «La difesa della razza» continuò le sue pubblicazioni sino al 20 giugno 1943) hanno tutti un elemento che li accomuna (oltre al manifesto e viscerale odio antisemita): la firma del loro autore. Sono infatti, quelli citati, tutti articoli firmati da Giorgio Almirante, che di quella rivista fu segretario di redazione.
Io non so bene quali virtù nazionali Giorgio Almirante abbia collezionato in vita al punto da meritarsi l’intitolazione di una strada. Queste, per quanto discutibili, sono scelte politiche, le cui responsabilità ricadono sui decisori ultimi di tali iniziative. Ma se davvero si decidesse di dedicare una strada a questo personaggio sicuramente importante nel panorama politico della nostra Repubblica, mi piacerebbe che fossero riprodotti, accanto al suo nome, gli articoli che scrisse per «La difesa della razza». Così…, tanto per avere una più chiara e completa cognizione dell’uomo. Per ricordare a tutti, agli Amministratori e ai cittadini, ora, domani e sempre, che dietro un nome, benché riabilitato nel corso del tempo e nel disorientamento culturale che sembra dominare il nostro presente, c’è anche una storia. E talvolta né nobile né lusinghiera.
Enzo R. Laforgia
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