Troppo impauriti per tornare ad essere animali socievoli
Le riflessioni di Mara ripercorrono i giorni dallo scoppio dell'epidemia in Cina fino a Codogno per arrivare dalle nostre parti. Dalla natura alla difficoltà di riprendere le nostre abitudini
L’uomo è un animale sociale. Mai come in questo periodo ho notato quanto quest’affermazione sia vera, anche per quelli che come me sono asociali fino al midollo.
La prima volta che ho sentito parlare del covid-19 e ho visto le immagini che arrivavano dalla Cina, non avevo ben compreso la gravità della situazione; certo costruivano ospedali in tempo record, ma pensavo che la Cina è così lontana, figurati se arriva qualcosa fin da noi.
Verso la metà di gennaio un mio amico doveva partire per il sud della Cina, un viaggio di lavoro della durata di quindici giorni; con la sua fidanzata si scherzava che non sarebbe più tornato perché messo in quarantena per mesi…lui, alla fine, non è più partito, per fortuna! Il suo volo veniva continuamente rimandato, fino ad essere del tutto cancellato. Noi intanto continuavamo a svolgere le nostre vite senza pensare minimamente a quello che sarebbe potuto succedere; incuranti del fatto che probabilmente il virus viveva già nelle nostre case.
Sempre tra gennaio e febbraio persone che conosco e familiari, hanno avuto una strana influenza, molto più forte del solito e prendevo in giro mio papà per quella tosse insopportabile che non gli passava mai: “Avrai mica il corona?”; una notte disse che gli facevano male i polmoni, come se avesse un masso sul torace che non lo lasciava respirare. Prese altra tachipirina e dopo qualche giorno sparì anche la febbre. Non ci pensammo più.
Alla fine di febbraio il figlio dei miei vicini di casa doveva trasferirsi a Codogno per lavoro; il suo appartamento era già pronto, così come la valigia era già caricata in macchina. Non è mai partito. Quella sera Codogno divenne zona rossa, nessuno entrava o usciva. Forse ci eravamo sbagliati, forse la Cina non era così lontana, forse il covid non era una semplice influenza. Altri quindici giorni e la Lombradia e altre undici province vennero chiuse, poi l’Italia intera divenne zona rossa. Era iniziata la quarantena a cui nessuno di noi era preparato; all’inizio sembrava una strana vacanza: tutti a casa, ti alzi quando vuoi, vai a dormire anche se non sei veramente stanco, ti gestisci il tuo tempo, ti dedichi ai tuoi hobby, l’importante è che non esci e non vedi altre persone. L’unica cosa che faceva sembrare il mondo irreale, era il silenzio che c’era fuori: niente auto, niente aerei, nessun vociare. Era tutto troppo innaturale, dov’erano finiti tutti?
Devo dire la verità: a me piace stare a casa mia, da sempre. Non faccio vita mondana, non amo le folle e il casino; non ho mai frequentato le discoteche perché mi stordiscono e mi danno un senso di claustrofobia, perciò ero già abituata “alla quarantena” e non ho mai sentito il bisogno di uscire a ogni costo. Certo mi mancavano i miei amici, l’andare a fare lunghe passeggiate, andare a fare colazione al bar, la mia famiglia abita nel mio stesso paese, ma non potevamo vederci; quelle erano le cose che mi mancavano. E poi sono cominciate le così dette paturnie mentali in cui ti chiedi: se vado a fare la spesa, tocco qualcosa che è contagiato e lo attacco a qualcuno? E se fossi un asintomatica? E se le persone con cui sono stata in contatto prima della chiusura avessero avuto qualcosa? Dubbi su dubbi.
La prova definitiva che tutto era cambiato e niente sarebbe tornato come prima l’ho avuta la mattina che sono entrata nell’ospedale di Angera; dovevo donare il sangue e salire all’ambulatorio del secondo piano, ma solo entrare nell’ingresso mi ha fatto capire cosa significhi vivere in un mondo che non ha nessuna difesa contro un nemico invisibile. L’ospedale di Angera è piccolo e non è stato convertito in ospedale covid, ma i medici non si distinguevano più gli uni dagli altri, i pazienti tenuti lontani il più possibile; tu che sei un semplice donatore, cammina svelta e vai dove devi, non fermarti in giro e non toglierti assolutamente quella mascherina. Una trasfusione dura circa dieci minuti, ma quella mattina a me è sembrata eterna; in sottofondo il medico e l’infermiera che si scambiavano i dati dei contagi e dei morti, le stime di cosa sarebbe capitato di lì a due settimane. Ho respirato solo una volta uscita dalla porta dell’ospedale e salita in macchina ero dissanguata e senza più lacrime. Forse quello è stato il giorno peggiore della mia quarantena, il giorno in cui ho visto quanto eravamo impotenti di fronte a qualcosa di troppo grande e l’unica consolazione di quella giornata è stato il pensiero che almeno il mio sangue sarebbe andato a chi in quel momento ne aveva bisogno.
Intanto il mondo continuava a rimanere fermo, la gente cantava sui balconi, sventolavano le bandiere tricolori, immagini che stridevano contro la visione dei camion dell’esercito pieni di bare a Bergamo. L’unica cosa in movimento e che mutava col passare del tempo era la natura; lei non si è mai fermata. L’inverno è finito mentre noi eravamo chiusi in casa, la primavera è scoppiata mentre noi facevamo il pane e riscoprivamo il piacere delle piccole cose, e quando siamo finalmente usciti, tentando di tornare a una specie di normalità, ci siamo accorti che il mondo che avevamo lasciato c’era ancora, ma noi eravamo troppo impauriti (a parte qualche caso) per tornare ad essere quegli animali socievoli che eravamo un tempo. Niente baci, niente abbracci, restare a distanza, tutto questo almeno finché non ci sarà un vaccino perché sarà l’unica garanzia che avremo.
Mara Buzzi, Cadrezzate con Osmate
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