“Ho visto la morte in faccia”
Il racconto di un cinquantenne, "quello della stanza 21". Il contagio, la malattia a casa e la corsa in ospedale tra la vita e la morte. "Sono fortunato perché il mio corpo ha reagito bene. Un immenso grazie a tutte le persone che mi hanno curato"
L’autoambulanza è arrivata a sirene spiegate. Ha dovuto tagliare tutta la città, ma di questi tempi bastano pochi minuti. Il personale sanitario era già preparato salendo di corsa le scale pronto con i respiratori.
“Mi hanno salvato per un soffio. Quando avevo iniziato a stare male con tutti i sintomi tipici del contagio, i medici mi avevano chiesto di restare a casa. All’inizio mi sembrava di poter superare gli effetti del coronavirus, ma dieci giorni fa ho avuto una crisi respiratoria terribile. Ero sicuro che non ce l’avrei fatta. Non riuscivo più nemmeno a parlare”.
Il cinquantenne che ci ha raccontato la propria esperienza preferisce restare anonimo, anzi vuole ringraziare tutte le persone che lo hanno soccorso e gli hanno prestato le cure come “quello della stanza 21”.
“All’arrivo in ospedale ho capito cosa stia significando vivere l’emergenza. Quando mi hanno portato dentro il primo locale mi hanno dato ancora ossigeno e poi sono rimasto tutta la notte in uno standone con tanti altri pazienti. Non dimenticherò mai i lamenti, la sofferenza che provavo e che sentivo vicino a me”.
Il paziente della stanza 21 è rimasto in ospedale otto giorni, dall’altro giovedì a venerdì scorso.
“Il giorno dopo si è liberata una stanza singola. Mi hanno messo il famoso casco per l’ossigeno e l’ho tenuto per tante ore. Poi hanno cominciato una terapia a base di un cocktail di farmaci e non so bene cosa ci fosse lì dentro, ma hanno iniziato a fare subito effetto. Restare chiuso tutto il tempo con flebo e respiratore non permette di vedere niente”.
Il ricovero e tutta la degenza è stato nel reparto infettivi, come gran parte dell’ospedale ormai dedicato ai malati Covid-19. Gli ospedali sono stati travolti e stravolti dall’emergenza e da settimane sono saltate tutte le normali attività.
“Trovarmi completamente solo era un mio desiderio, ma poi mi sono reso conto della fatica di vivere in una condizione simile. Dalla mia stanza riuscivo a vedere solo un angolo della finestra con un albero. Almeno questo mai permetteva di capire come scorrevano le ore. Mi hanno aiutato le persone che entravano nella stanza per vedere come stavo, per fare le pulizie e ho trovato una umanità incredibile. Non potevo riconoscere nessuno perché sono tutti coperti e si vedono appena gli occhi. Il primario Paolo Grossi passava tutte le mattine almeno per un saluto e una battuta. Dopo tre giorni che ero bloccato a letto senza le forze nemmeno per parlare mi sono accorto che di fronte a me sulla parete c’era un crocefisso. Ho fatto un’intera giornata a litigarci e poi ci ho fatto pace. Mi si è accesa una luce dentro. Stare tra la vita e la morte ti permette di ripensare alla vita, a quello che hai fatto, ai tuoi cari. Appena ho avuto un po’ di forze ho scritto al mio commercialista che è un amico e gli ho lasciato alcune indicazioni nel caso non ce l’avessi fatta. Ho provato un grande senso di liberazione, come se a quel punto avessi potuto staccarmi dalla vita terrena”.
Il nostro paziente della stanza 21 aveva la fortuna di conoscere bene l’ambiente sanitario grazie alle lunghe frequentazioni, oltre che con il primario, anche con il professor Massimo Agosti e Antonio Tomassini.
“Loro mi sono stati molto vicini, ma in quei momenti devi farcela da solo. In ospedale sono stati bravissimi e non mi è sembrato vero di scoprire che il mio corpo stava reagendo benissimo. Quando ero entrato avevo i polmoni completamente bianchi e credevo di non farcela”.
Dopo otto giorni una ripresa insperata, nei tempi e nei modi.
“Mi hanno fatto tre tamponi per sicurezza e sono risultati tutti negativi. A quel punto mi hanno detto che il giorno dopo mi avrebbero dimesso perché ce l’avrei fatta da solo a casa e avrei potuto lasciare il posto a un’altra persona. Quasi non ho dormito dall’emozione. Alle sei ero già pronto, come un bambino alla sua prima gita. Finalmente alle 12 il via libera e sono potuto “evadere”, perché l’ho proprio vissuta così. Mi è venuto a prendere un taxi, un servizio predisposto dal comune per i malati di covid-19 che devono andare in quarantena. Mi ha accompagnato una infermiera fino a fuori dall’ospedale. Quando le ho detto che poteva pure rientrare perché ce l’avrei fatta da solo mi disse di no perché avrei potuto avere problemi. Me ne sono accorto appena ho messo piede fuori dall’ospedale. Ho fatto un gran respiro e per poco non sono svenuto e ha dovuto sorreggermi. L’ossigeno liquido è altro da quello che respiriamo ogni giorno”.
Oggi, dopo tre giorni a casa, il paziente della stanza 21 racconta la sua esperienza con un groppo in gola. Telefona agli amici e alle persone care perché ci tiene a fargli sapere che è stato contagiato e il virus gli ha fatto passare giorni terribili, però ora sta bene.
“Sono un uomo fortunato. Posso raccontarlo. Quando tutto questo sarà finito, perché finirà – e si sente un singhiozzo e la voce rotta dall’emozione – dobbiamo fare qualcosa per tutte queste persone che con uno stipendio di 1.400 euro si impegnano sapendo di rischiare anche la vita. Non dimenticherò mai il sorriso delle persone che mi hanno curato. Grazie di cuore dal paziente della stanza 21. Loro sapranno chi sono”.
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