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Appunti dal fronte di un medico di famiglia (motociclista)

La testimonianza del dottor Marco Pezzoli che racconta le sue giornate fra pazienti, terapie e corse in moto per raggiungere i pazienti. “Non è finita, purtroppo. Temo che ci aspetti un altro giro di giostra“

Generica 2020

Attraverso la visiera appannata e il sudore che mi scende dalla fronte riesco a vedere il suo sguardo carico di angoscia. Con un filo di voce mi chiede: «non devo andare in ospedale, vero dottore?». Uno sguardo al saturimetro e uno al monitor dell’ecografo. La polmonite sta peggiorando, ma c’è ancora un margine per rimanere a casa. «Ma no, vedrà che domani andrà meglio! E che potrà completare le cure a casa».

Comincia così l’articolo che è un po’ lettera aperta e un po’ testimonianza dal campo di di Marco Pezzoli, medico di famiglia di Laveno Mombello. 

Uscendo da quella casa mi rendo conto che stiamo lavorando al limite, con poche certezze e, soprattutto, da soli. E’ ben diverso gestire un paziente critico all’interno di un reparto ospedaliero, in cui puoi contare sul supporto di altri colleghi oltre che del personale infermieristico, dal trattarlo a casa. Il forte rapporto che però si crea con il malato e il suo medico di famiglia e la fiducia che ripone nel “suo” dottore fanno sì che le cure domiciliari possano in molti casi essere pari a quelle
prestate all’interno degli ospedali.

E così che sul finire della seconda fase di questa terribile pandemia tra i miei assistiti (poco più di 1500) solo 3 sono stati ricoverati in ospedale per Covid (e tutti nella prima fase) e solo uno è deceduto (e verosimilmente a causa delle sue patologie pregresse più che per il Coronavirus).
Ricordo ancora con quanta angoscia leggevo le notizie che ci arrivavano da Codogno a fine febbraio dello scorso anno. E con quanta trepidazione ho consultato in quei giorni la mia casella di posta elettronica per cercare, invano, un messaggio dai vertici di ATS che ci suggerisse nuove modalità organizzative e operative per affrontare l’emergenza pandemica. Nulla. Per settimane non è arrivato nulla.

La cosa più sconcertante di quel primo periodo è stata la solitudine. Non arrivava alcuna comunicazione ufficiale da parte dei vertici di ATS ed era molto difficile comunicare anche con i colleghi. Ognuno di noi, attonito, cercava di organizzarsi a modo suo. Poi sono arrivate le prime frammentarie comunicazioni, che spesso contraddicevano quelle dei giorni precedenti ma che in sostanza ci ingiungevano di non somministrare alcuna terapia, al di là del paracetamolo, di non visitare i pazienti se non si disponeva di una adeguata dotazione di DPI (che ben pochi di noi medici di famiglia aveva) e di attendere un eventuale peggioramento dei sintomi respiratori per inviare il paziente in ospedale.

E così si è diffusa, tra molti di noi medici di famiglia, la sensazione di trovarci allo scoperto e disarmati come i fanti sul Piave guidati da Cadorna nella Grande Guerra. Senza una guida sicura che ci conducesse e culturalmente poco propensi a fare squadra, ci siamo trovati da soli a gestire questo nuovo nemico della salute pubblica.
Questa, verosimilmente, è stata una delle principali cause che hanno permesso al virus – specie nella prima fase della pandemia – di metterci all’angolo, di diffondersi indisturbato e di mietere molte vittime.
Noi da subito abbiamo cercato di reagire e di non seguire pedissequamente queste indicazioni.
Abbiamo lavorato duramente per cercare di affrontare al meglio l’emergenza pandemica che cominciava ad avvicinarsi anche alla nostra provincia. Quante telefonate, scambi di email e teleconferenze con i colleghi ospedalieri per trovare nuove modalità operative per il trattamento al domicilio del malati Covid.

E così che con l’infermiera Katia che collabora da sempre con me, da soli e con i pochi mezzi di cui disponevamo, ci siamo organizzati per affrontare la battaglia contro la pandemia da Covid-19. Non siamo scappati: per 12-14 ore al giorno, e spesso anche nel fine settimana, eravamo al nostro posto, vicino ai nostri pazienti. E, nonostante la solitudine e il clima di profonda incertezza, quante ore passate a cercare i DPI (dispositivi di protezione individuale), a studiare i protocolli terapeutici che venivano pian piano diffusi, a riorganizzare le attività di ambulatorio e le modalità di invio delle ricette (quanta fatica per far capire a tutti, specie ai più anziani, che non dovevano in alcun modo recarsi in ambulatorio per il ritiro delle ricette…). E, soprattutto, garantire a tutti quelli che ne avevano bisogno, una visita medica. Nonostante il rischio di essere contagiati non abbiamo mai negato una visita medica ai nostri malati.

“Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”.
S. Francesco d’Assisi.

Alle 7.30 del mattino, sorseggiando una buona tazza di caffè, si dà uno sguardo al programma della giornata. La lista dei pazienti positivi al Covid è sempre più lunga. Ci sono quelli che si manterranno sempre asintomatici, quelli per cui basta il solo telemonitoraggio ma cresce sempre più la lista dei pazienti che si stanno aggravando e che vanno visitati tutti i giorni, alcuni anche più volte al giorno. E così si prepara l’elenco dei pazienti che vanno visitati al domicilio. L’infermiera telefona loro comunicando la mia ora di arrivo, in modo che possano arieggiare i locali prima della visita.

Preparo il mio zaino medico: l’ecografo portatile si rivelerà uno strumento fondamentale per monitorare l’evoluzione clinica dei pazienti.

Mi vesto con gli abiti da lavoro e indosso la tuta da biocontenimento, quella bianca, che ci fa sembrare degli astronauti. Sono pronto per salire in sella alla mia moto, uno dei pochi mezzi circolanti durante il lock-down, e recarmi a casa del primo paziente. Mai come in questo periodo ho visto la paura negli occhi dei malati. Isolati a casa e debilitati da una malattia grave e imprevedibile che avrebbe potuto facilmente portarli in un reparto d terapia intensiva a finire i loro giorni lontano dalle persone care. E però ho visto anche tanta gratitudine nei loro sguardi. Avere a fianco il proprio medico di famiglia in un momento così drammatico credo sia stata, per molti di loro, la migliore medicina.

Saturazione di ossigeno, frequenza respiratoria, monitoraggio elettrocardiografico, pressione e frequenza cardiaca, temperatura e auscultazione del torace. Ecografia del torace per valutare l’estensione della polmonite, il suo peggioramento o il suo miglioramento. Test del cammino per valutare la saturazione di ossigeno dopo sforzo fisico. Un saluto e via, per ridurre al minimo la permanenza al domicilio e il rischio di contagiarmi a mia volta. Fuori dalla casa mi tolgo i copri-calzari, i doppi guanti e lo schermo facciale; mi spruzzo con il disinfettante alcoolico e sono pronto a risalire in moto.

Spostarmi in moto rende più “leggero” il lavoro e mi consente di non contaminare l’automobile, che sarebbe più difficile da sanificare.

E via dalla seconda paziente: «la vedo meglio oggi; come va col respiro? E l’ossigenazione?» In quella casa fa davvero caldo e il sudore comincia a imperlarmi la fronte. Com’è dura lavorare con questa tuta e con tutte queste protezioni. E com’era bello prima del Covid quando, al termine della visita medica domiciliare, ti sedevi immancabilmente in cucina a bere un buon caffè con i tuoi pazienti. Ora neanche un goccio d’acqua. Eh sì, già dopo due ore di lavoro ti rendi conto che il tuo corpo ha bisogno di acqua: ma non si può! Occorre andare avanti. Girare tra le case dei malati Covid è come stare in un grande reparto ospedaliero in cui sono ricoverati questi malati: una volta vestito devi completare il turno così e non puoi permetterti d staccare per una pausa.
Il giro visite termina verso le 13. Ci vuole almeno mezz’ora per la svestizione e la sanificazione degli strumenti. E’ il momento più delicato, in cui anche un piccolo errore potrebbe vanificare tutta la fatica dell’aver indossato i dispositivi di protezione per tante ore. L’infermiera Katia mi aiuta in questa fase, che non potrei fare in sicurezza da solo.
Eh già, l’infermiera, figura fondamentale dell’ambulatorio: come potrei rispondere alle tante telefonate che arrivano mentre sono in giro per le visite? Chi farebbe le prenotazioni dei tamponi per i sospetti Covid? Chi le segnalazioni sul portale delle malattie infettive? Ma, soprattutto, chi meglio di un infermiere è in grado di capire i bisogni del malato e di sostenerlo? Quanto disagio psicologico ha creato questa pandemia? E chi, più di un buon infermiere, è in grado di comprenderlo e di sostenere le persone che lo vivono?
Eppure, quella dell’infermiere, è una figura non scontata nell’ambito della medicina di famiglia,…ma queste sono considerazioni che sarà bene riprendere una volta finita l’emergenza pandemica: occorre davvero riorganizzare l’assetto delle cure primarie.
Una doccia e sono pronto per registrare in cartella clinica le visite della mattinata e di adeguare la terapia ai miei pazienti.
Si pranza che sono già le 15 e ci si prepara ad affrontare la seconda parte della giornata.

Il pomeriggio passa controllando le numerose email che ci arrivano, richiamando i pazienti per monitorare a distanza il loro stato di salute, telefonando ai Sindaci per aggiornarli sulla situazione pandemica nel nostro territorio e per concordare strategie comuni per aiutare la popolazione, e organizzare la campagna vaccinale antinfluenzale (che siamo riusciti a fare nella palestra della Scuola Scotti di Laveno grazie al prezioso supporto del Comune, della Croce Rossa del Medio Verbano e della Protezione Civile di Laveno). E poi ci sono anche gli altri malati. Già, perché durante questa pandemia le altre malattie non si sono fermate: ci sono i malati cronici che spesso peggiorano, ci sono i malati oncologici e quelli terminali che vanno accompagnati nelle loro ultime ore. E ci sono anche tante piccole urgenze che vanno trattate perché i pazienti si rifiutano di andare al Pronto Soccorso: quante ferite abbiamo ricucito e quanti piccoli traumi abbiamo gestito in questo periodo. Senza parlare poi del paziente con un infarto in corso che si rifiuta di andare in ospedale: quanta fatica per convincerlo e farlo salire sull’ambulanza. E spesso tocca rimettersi la “bardatura” per andare al domicilio di un paziente Covid che sta peggiorando. Non è mai prima delle 20.30-21 che chiudiamo l’ambulatorio e rientriamo dalle nostre famiglie che, come sempre, hanno saputo aspettarci.

E mentre termino di scrivere queste righe mi arriva l’ennesima telefonata di un paziente con la febbre: in questi giorni di metà febbraio il numero di casi sospetti, di contatti e di casi accertati sta sensibilmente aumentando.
Non è finita, purtroppo. Temo che ci aspetti un altro giro di giostra.

di Marco Pezzoli

Pubblicato il 12 Febbraio 2021
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