Da Ispra la ricetta per il “dopo Kyoto”
L'Unione Europea parteciperà al "Summit della Terra" di Copenhagen. La posizione della Commissione si baserà sulla consulenza scientifica del CCR, dove si studiano gli scenari futuri sul clima. Staremo a guardare? "Ognuno di noi deve fare qualcosa"
Scienziati come Frank Raes, direttore della Climate Change Unit del JRC, forniscono da sempre il supporto scientifico alle scelte dell’Unione Europea, e lo faranno anche in questa fase cruciale. Non solo: a Copenhagen sarà presente una loro delegazione, per rispondere a tutti i dubbi dei decisori sulla via migliore da seguire. Così, per capire già ora cosa potrà accadere a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre, siamo passati dall’ufficio di Raes al CCR di Ispra, poche ore prima della sua partenza per la Danimarca.
Cosa ci si aspetta dall’incontro di Copenhagen? Perché è così importante per la vita di tutti noi?
«Nel 2012 scade il protocollo di Kyoto, ma dobbiamo ancora trovare un accordo per gli anni successivi. Kyoto prevede che entro il 2012 le emissioni di gas serra debbano diminuire dell’8% rispetto al 1990, ma questo non basta. Già negli anni ’20 dovremo arrivare ad una riduzione del 20%, negli anni ’50 dovremmo arrivare ad un -50%».
Alcune dichiarazioni di Obama lasciano presagire un summit “leggero”, senza scelte concrete fino a quando non si avranno certezze sulla crisi finanziaria. Sarà così?
«Questo sarà un accordo in due fasi: attualmente speriamo in un accordo politico, che vincoli gli stati a creare un accordo legale, cioè vincolante, entro sei mesi o comunque verso l’anno prossimo».
Quando si parla di cambiamenti climatici, ormai, c’è un sentimento di urgenza: non rischiamo di perdere troppo tempo?
«I governi hanno scelto un traguardo limite: la temperatura della Terra non dovrà aumentare oltre i due gradi rispetto al periodo industriale. Per certi versi è una scelta arbitraria, dato che alcune isole verrebbero danneggiate anche solo con l’aumento di un grado, ma rimane un punto di partenza. Ora, per evitare questo aumento di due gradi, le emissioni totali globali devono diminuire entro il 2020: non ci sono dubbi, ce lo dicono i modelli scientifici. Per questo dobbiamo iniziare a lavorare adesso: una volta scaduto Kyoto non avremo in mano nulla, quindi abbiamo tre anni per mettere in piedi una legislazione. È poco, dato che per Kyoto ci sono voluti otto anni».
Esiste il rischio di toccare un punto di non ritorno?
«Evitare l’aumento della temperatura di due gradi è fondamentale, andando oltre si innesterebbero meccanismi difficili da controllare. Se la calotta polare iniziasse a sciogliersi, non potremmo certo ristabilirla in un anno… I disastri di quest’estate a Messina e Istanbul sono segni di un cambiamento. Ormai è sicuro il ruolo dell’uomo nei cambiamenti climatici.».
Qual è il ruolo del CCR di Ispra nelle decisioni che verrano prese a Copenhagen?
«Noi facciamo parte della Commissione Europea, e abbiamo fornito gli strumenti necessari a formare la posizione dell’Unione Europea sul tavolo dei decisori. Come CCR diamo sempre un supporto scientifico a queste decisioni. Già da due anni stiamo lavorando sulla proposta europea».
Quale sarà la posizione dell’Unione Europea?
«L’Europa ha già deciso unilateralmente di diminuire le emissioni del 20% rispetto al 1990, entro il 2020. In base agli accordi di Copenhagen potremmo arrivare anche fino al 30%».
Secondo la scienza, quali sarebbero i limiti necessari?
«Bisogna arrivare entro il 2050 a una riduzione globale del 50%, questo per i paesi ricchi significa ridurre di almeno dell’80% rispetto al 1990: è un risultato ambizioso».
Ambizioso sicuramente, ma è anche fattibile?
«Non basta la buona volontà, ci vuole anche la tecnologia. Abbiamo già delle tecnologie energetiche interessanti, dobbiamo però creare un mercato in grado di diffonderle. Inoltre dovremo pensare a un concetto davvero nuovo di economia, la cosiddetta green economy. Bisogna produrre le cose diversamente e bisogna anche consumare diversamente: non dico di tornare al medioevo, ma di evitare gli sprechi».
Quanto è importante coinvolgere tutti i paesi del pianeta?
«La difficoltà del negoziato di Copenhagen sarà proprio nel rapporto tra paesi ricchi e poveri. Se oggi c’è un cambiamento climatico ciò dipende principalmente dai paesi ricchi, ai quali i paesi poveri delegano molte responsabilità. Abbiamo gestito il mondo per 200 anni, e ne abbiamo avuto i benefici, ora i paesi poveri ci chiamano alle nostre responsabilità, prima di voler agire in prima persona».
Copenhagen è anche tempo di bilanci per Kyoto. Come si sono comportati l’Europa e l’Italia?
«I dati sono concreti e parlano chiaro. L’Europa raggiungerà gli obiettivi di Kyoto, ma questo è dovuto ad alcuni paesi particolarmente virtuosi, come il Regno Unito e la Germania. In questi paesi ci sono state politiche mirate a ridurre le emissioni. L’Italia, purtroppo, non ha avuto miglioramenti. C’è da dire che qui da tempo usiamo il metano, quindi il punto di partenza era quello di una economia efficace e pulita, ma vedere una crescita di emissioni è un po’ vecchio stile. Siamo in ritardo anche nello sviluppo di un’industria per le energie alternative: se dovessimo installare mulini a vento, oggi, dovremmo andare a comprarli altrove».
Noi cittadini possiamo solo limitarci a guardare?
«Ognuno di noi potrebbe già cominciare domani a fare qualcosa, evitando di sprecare energia. Io stesso, quasi me ne vergogno, emetto 17 tonnellate di CO2 l’anno. Un italiano medio ne produce 10, un americano medio ne produce 20. Un terzo delle tonnellate pro capite deriva dalla macchina, poi un terzo deriva dalle spese di casa, e il rimanente è spreco legato al consumo. Per stabilizzare il clima, entro il 2050, dovremo arrivare a 2 tonnellate l’anno».
Ma è pensabile raggiungere questo risultato da soli, come consumatori?
«Il nostro comportamento di acquirenti può anche influenzare il sistema produttivo: nessuno ci obbliga a comprare una grande macchina pesante, possiamo dire al mercato che vogliamo auto leggere e poco inquinanti. Solo che, per essere realisti, solo il 5-10% delle persone si comporta così, il resto… vive. Per questo servono gli accordi e le leggi vincolanti. Qui al CCR abbiamo anche una grande banca dati delle emissioni, che apriremo al pubblico in occasione di Copenhagen, in collaborazione con Google Earth: questo consentirà a tutti di monitorare la situazione e di prendere coscienza».
La crisi economica, con la chiusura degli stabilimenti, ha paradossalmente ridotto le emissioni di gas serra. Quali sono le lezioni da prendere, in questa fase di recupero?
«La gente risparmia, alcune aziende chiudono, quindi la diminuzione della produzione ha portato minori emissioni. Ora, uscendo dalla crisi, dovremo imparare ad essere più efficaci, imparare a non sprecare. Le nuove tecnologie, come le macchine ibride, possono aiutarci in questo. Dovremmo cogliere l’occasione per mettere in piedi una nuova economia. Ci sono nuovi lavori: produrre mulini, cellule fotovoltaiche, piantare foreste… sono nuove opportunità. Non a caso gli investimenti contro la crisi, in molti paesi, stanno già andando a chi produce in modo diverso. Alcuni paesi europei hanno dimostrato che la crescita del Pil può abbinarsi benissimo ad una riduzione delle emissioni».
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