“La nazionale Ucraina? Dorme sul mio divano”
La storia della famiglia Binda di Besozzo, che ospita in casa gran parte della formazione giallo-azzurra, rimasta senza budget per via della guerra. «Fino a 16 posti ci stanno, gli altri sono al Don Guanella di Barza».
«Per me è stata una cosa normale». Mentre lo dice, Leonardo Binda ha lo sguardo limpido come le acque di un lago alpino. Eppure a sentirla, questa grande storia di umanità e passione per lo sport, sembra troppo bella per essere vera.
Tutto inizia otto giorni prima dei mondiali di canottaggio under 23, quando Leonardo, nome noto del canottaggio internazionale, riceve una telefonata dall’allenatrice Olena Donets, un’amica di vecchia data.
Olena è preoccupata. L’hanno appena contattata dall’Ucraina, suo paese natale, chiedendole di trovare una soluzione per la nazionale di canottaggio; 45 persone tra atleti, tecnici e dirigenti, bloccati in patria perché la Federazione non ha i soldi per permettersi la trasferta italiana.
«Non puoi capire cosa significhi per uno sportivo allenarsi duramente tutto l’anno per un mondiale ed essere costretto a rinunciarci per qualcosa che non dipende da te, che non hai voluto
– dice Olena -. Dovevo attivarmi, fare qualcosa. È così che la prima persona a cui ho pensato è stata Leonardo».
Leonardo Binda (nella foto insieme a Olena e a due giovani atlete Ucraine) gestisce con suo figlio Joas e alcuni collaboratori, lo storico marchio Di-Bi di Besozzo (nella foto in basso lo stand del marchio alla Schiranna). Sportivi, gente concreta e pratica che non si perde d’animo di fronte a una grande sfida.
«Dopo la telefonata di Olena – racconta Leonardo – ho chiamato subito la sezione degli Alpini di Varese per chiedergli se avevano la disponibilità delle tende. Purtroppo erano già impegnate e così mi hanno consigliato di chiamare la Protezione Civile. Tra una chiamata e l’altra ho allertato anche il Comitato organizzatore».
Il tempo stringe, il mondiale è alle porte e la nazionale giallo-azzurra deve ancora svolgere tutte le pratiche per ottenere i visti. Non c’è tempo da perdere. «Dopo aver raccolto tanti "forse", "ma", "vediamo", ho deciso di prendere il toro per le corna e di ospitarli tutti a casa mia».
Detto fatto. La nazionale viene avvertita: si parte. Svolte tutte le pratiche necessarie, comincia il lungo viaggio alla volta della gloria mondiale e del lago di Varese.
Tutta la squadra affronta le spese di tasca propria. Si viaggia in treno e poi, raggiunto il confine, in pullman. Niente aereo, troppo caro.
«I ragazzi sono arrivati a Varese domenica, alle 3 del mattino – continua Leonardo – e sono andato con mio figlio Joas a prenderli ma non ci stavano tutti. Così abbiamo portato le ragazze a Besozzo, mentre i ragazzi hanno dormito in pullman, in attesa di essere trasferiti l’indomani all’Istituto Don Guanella di Barza, dove, grazie alla disponibilità dei preti, abbiamo trovato i posti letto rimanenti».
Casa Binda diviene così un rifugio, un luogo di accoglienza e disponibilità.
«Oggi ho 16 ospiti, uno dorme in garage – prosegue ridendo Leonardo -. Abbiamo svuotato il soggiorno, montato due frigo e fatto una grande spesa prima del loro arrivo. Devono cucinare – confida Leonardo quasi sottovoce -, non hanno i soldi nemmeno per permettersi una pizza». Mentre parla, gli atleti ucraini sono impegnati sui campi di gara e quando capita di incontrarli sorridono: «Abbiamo qualche barca già in finale – dice orgogliosa Olena – per altre ci sono buone possibilità di ottenere un bel risultato».
E chissà se anche la grande pastasciutta di benvenuto, cucinata da Joas e dalla signora Binda, ha contribuito ai risultati di questa giovane nazionale. «Prima di partire – continua Olena – le ragazze hanno promesso di ricambiare con un piatto tipico ucraino, il borsch. Una ministra con carne, cavolo cappuccio, rape, carote, cipolle, fagioli e tanta salsa di pomodoro».
Leonardo viene continuamente interpellato. Lo cercano in tanti, lo chiamano per nome, gli sorridono, gli chiedono qualsiasi cosa. Lui si avvicina e ripete: «Davvero, per me e per la mia famiglia è stata una cosa normale».
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