Darwin Pastorin piange l’amico Pablito: “Addio, campione umile”
Il giornalista era tra gli inviati di Tuttosport ai Mondiali '82 e fu testimone oculare anche della tripletta al Brasile: "Per Pablito fu il giorno di una seconda nascita. Dolce e spontaneo, seppe rimanere se stesso"
«Entrava in area di rigore dando quell’impressione di essere leggero, ma in quel momento si trasformava. Diventava un gigante, diventava un fulmine. Un gigante che anche nel momento della sua popolarità massima, quando era famoso in tutto il mondo, mantenne sempre il suo sorriso, quello del ragazzo Paolo».
Darwin Pastorin era poco più che ventenne quando conobbe per la prima volta Paolo Rossi, allora promettente, e già prolifico, attaccante del Lanerossi Vicenza. Stagioni d’oro per entrambi che strinsero – l’uno campione sul campo, l’altro grande interprete del giornalismo sportivo – un’amicizia sincera, delicata, sentita e perpetuata nel corso degli anni. «Piango un amico caro, un campione mai presuntuoso, mai arrogante» racconta oggi Pastorin a VareseNews.
Darwin (che era nato a San Paolo, in Brasile, seppur da una famiglia italianissima) di anni ne aveva 27 in quel leggendario pomeriggio del 5 luglio 1982, quando il suo amico Pablito demolì lo squadrone verdeoro al Sarrià di Barcellona, uno stadio che poi è stato abbattuto ammantando così di ulteriore leggenda quell’impresa. «Ai Mondiali di Spagna ero inviato di Tuttosport – racconta Pastorin – e il giornale mi aveva scelto per seguire il Brasile. La giornata per me era già memorabile: alla mattina chiamai mia mamma che mi avvisò di aver esposto il tricolore sul balcone: quando io le dissi che avrei tifato la Seleçao minacciò di diseredarmi. Andai allo stadio e fui testimone di una cosa incredibile, la partita da “realismo magico” di Paolo, che sembrava uscito dalle pagine di Gabriel Garcia Marquez, premio Nobel per la letteratura proprio nel 1982. Se Rossi quel giorno non avesse fatto gol, avremmo assistito alla fine di un giocatore, invece per lui fu una apoteosi; al contrario ci fu il crollo sportivo del povero Valdir Perez, portiere del Brasile nel giorno sbagliato. A proposito: da quella volta, quando ci vedevamo, Paolo mi salutava ridendo, sventolando per aria tre dita, in ricordo della tripletta».
Quel pomeriggio Pablito, davanti agli occhi dell’amico Darwin, si scrollò di dosso la squalifica per il totonero («un’ingiustizia – attacca Pastorin – tant’è vero che Bearzot lo convocò perché era convinto della sua innocenza»), le incertezze e le polemiche che avevano caratterizzato la prima parte del Mundial, con zero reti segnate in quattro partite. «Paolo mi ha detto più volte una cosa significativa, e cioè che il 5 luglio dell’82 era la sua seconda data di nascita, a fianco a quella “ufficiale” del 23 settembre del ’56. Con quelle tre reti cancellò le paure, i fantasmi, la malinconia del periodo precedente. Ed ebbe un alleato fondamentale in Enzo Bearzot al quale in molti chiedevano di schierare Altobelli in attacco: il “Vecio” si fidava di lui, sapeva che prima o poi Rossi sarebbe “uscito” e lo fece nel modo più debordante possibile. Quella tripletta aprì a Paolo le porte per una semifinale ancora da protagonista e per una finale dove siglò la prima rete azzurra diventando capocannoniere dei Mondiali nella sera in cui l’Italia sollevò la Coppa».
Darwin Pastorin e Paolo Rossi sul palco, fianco a fianco (foto Giglio)Reti – ben sei in tre partite – che lo consacrarono a icona universale, a personaggio conosciuto in tutto il mondo. «Tanto che noi italiani, quando viaggiavamo all’estero in quegli anni, venivamo chiamati paolorossi, tutto attaccato, dalla gente di ogni Paese. Ecco: Paolo a quel punto seppe rimanere dolce e spontaneo, continuò a sfoggiare quel bellissimo sorriso che era un lampo sul suo volto».
«Paolo ha vestito la gloria con grande umiltà».
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