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Quei “matti in gabbia”

I portieri di hockey sembrano cavalieri medievali con le protezioni, la maschera, lo "scudo". Ma un tempo affrontavano i dischi letteralmente a "viso aperto". Storie di uomini coraggiosi e un po' folli

alla balaustra matti in gabbia

(d. f.) “Quei matti in gabbia” è la terza puntata della rubrica di Marco Giannatiempo curata dalla redazione sportiva di V2 Media/ VareseNews e dedicata alla cultura dell’hockey su ghiaccio. “Alla balaustra” ha cadenza quindicinale e viene pubblicata il primo e terzo (ed eventualmente quinto) lunedì pomeriggio di ogni mese. NB: nell’hockey “gabbia” è termine usato per indicare la porta.

Il tuo ruolo è quello di stare in porta. È tutto molto semplice: non ti preoccupare, devi metterti nella traiettoria di dischi che viaggiano circa a 100 chilometri all’ora ed evitare che entrino in rete. Per la maggior parte del tempo non farai parte del gioco attivo della squadra, e non saprai mai cosa si dicono i tuoi compagni prima dell’ingaggio. Non parteciperai mai attivamente all’azione del gol della tua squadra, e le reti le festeggeranno tra di loro, tu rimani li, buono tra i pali. Dimenticavo, in tutto questo se subirai un gol tutti penseranno che sarà colpa tua, e lo sarà anche se ti diranno di “no” colpendoti i gambali con il bastone. Questa potrebbe essere la spiegazione riassunta di uno dei ruoli più particolari dello sport in assoluto, l’unico in cui avere una “rotella” in meno è forse la caratteristica migliore.

Guardandoli da vicino poi, sembrano guerrieri medievali: sarà per quelle protezioni che richiamano le antiche armature, e poi quella maschera che si calano sul viso come facevano i cavalieri prima di ordinare il galoppo lancia in resta al proprio destriero. E che dire dello scudo (si chiama proprio così ndr) e di quel bastone che rassomiglia ad uno degli spadoni che i soldati di ventura brandivano coraggiosamente? Osservandoli meglio non mancano neppure i riti pre-battaglia: c’è chi accumula mucchietti di “neve” alle estremità dei due pali della porta nettando l’area di gioco, chi si colpisce col bastone gambali e spalle in maniera ritmica, chi gira attorno alla gabbia per un certo numero di volte… e davvero molto altro.

Portieri si nasce quindi, soprattutto nell’hockey, dove emerge in maniera piuttosto importante come – alle necessarie caratteristiche legate all’istinto e alla preparazione – si siano registrate vere e proprie stranezze in moltissimi portieri che hanno fatto la differenza. Qualcuno li chiama matti, ma non è (quasi) mai così, anche se di storie estreme ne esistono tante, come quella di Terry Gordon Sawchuk, canadese di origini ucraine che nacque il 28 dicembre del 1929 a Winnipeg capoluogo della provincia canadese di Manitoba. Luogo che deve il suo nome alle caratteristiche morfologiche: nella lingua degli indiani Cree, si potrebbe tradurre in “acqua fangosa”, posto non stupendo per vivere, ma da quel fango è difficile uscire, e Terry decise che sarebbe stato lo sport a fargli prendere il volo. Per questo motivo si cimentò in diverse discipline tra cui il rugby che sembrava piacergli davvero tanto; all’hockey infatti ci arrivò per caso: c’era un posto vacante nella squadra del college, ma serviva una persona di coraggio. Il talento – che lui comunque aveva – arrivava dopo, per prima cosa serviva coraggio. A quei tempi infatti i portieri non usavano le maschere: per gli allenatori limitavano la visibilità, e poi con i bastoni senza la curvatura della paletta, il disco non si alzava quasi mai, almeno così dicevano. Lo ricucirono moltissime volte, 404 i punti di sutura in totale a fine carriera, dove arrivò fisicamente consumato, quando appese i gambali al chiodo aveva perso il 70% delle funzionalità del braccio destro anche perché a quei tempi le protezioni si limitavano a fasciature di cuoio non molto imbottite. In carriera subì molti interventi alla schiena che lo costrinsero ad una postura innaturale nell’ultimo anno di attività, periodo in cui ebbe a che fare anche con una lesione al bulbo oculare, situazione che gli causò la perdita di alcune diottrie. Poi c’era la sua condizione mentale, soffriva di forte depressione e ansia, non legava né con compagni di squadra né con tifosi. In tutto questo vinse quattro Stanley Cup, quattro Vezina Trophy (il trofeo assegnato al miglior portiere della lega), entrando nel 1971 anche nella Hockey Hall of Fame. Soddisfazione che non si godette visto che morì poco prima, all’età di 40 anni, a seguito di gravi lesioni interne dopo una violenta lite con il compagno di squadra Ron Stewart, causate da incomprensioni rispetto alle spese casalinghe dei due che vivevano assieme a a Long Island.

Un’altra storia molto particolare è quella di Clint Malarchuk, che ha parato per Quebec Nordiques, Washington Capitals e Buffalo Sabres. Ottimo giocatore capace di garantire statistiche eccellenti, ma con un passato molto travagliato: da giovanissimo era affetto da una serie di problemi molto importanti, tra cui una forma marcata di ansia che gli fece perdere anni di scuola e praticamente tutti gli amici. I problemi poi si tradussero in disturbi ossessivi compulsivi, generando altre difficoltà che, questa volta, l’hockey riuscì a curare visto che quando scendeva sul ghiaccio era un’altra persona: amava questo sport e l’ambiente, era il primo ad entrare sul ghiaccio e l’ultimo ad uscirne dando tutto per la sua squadra. Lui la maschera la indossava, ma a poco servì nel corso della sfortunata partita tra i St. Louis Blues e i Buffalo Sabres di Malarchuk, il 22 marzo 1989, quando Steve Tuttle dei Blues e Uwe Krupp dei Sabres si scontrarono sotto porta, ed una lama del pattino recise la carotide del portiere, incidendo anche la giugulare: il sangue colorò il ghiaccio, giocatori e pubblico assistettero alla scena terrorizzati (due gli infarti sulle tribune). Partita sospesa e occhi puntati sul medico della squadra che tamponò la ferita, salvando la vita a Clint solo grazie alla sua prontezza. Il giocatore si riprese dopo una mezz’ora, chiese una birra e si diresse verso l’attrezzista chiedendo una maglia pulita perché con tutto quel sangue addosso sul ghiaccio proprio non ci poteva tornare…

Glenn Hall detiene un record ancora imbattuto in NHL, ben 502 partite giocate in maniera consecutiva, per la bandiera indiscussa dei Chicago Blackhawks. Hall a detta di molti è stato uno dei portieri più forti di tutti i tempi, cosa probabile, mentre la cosa certa è che senza dubbio è uno stato uno dei più coraggiosi e tenaci, come la sera in cui non vide il disco scagliato da Vic Stasiuk, attaccante dei Boston Bruins, che spuntò tra un nugolo di gambe e bastoni. Il disco gli centrò il viso, naturalmente senza maschera, producendo un rumore agghiacciante, quello della rottura delle ossa facciali. Barella, spogliatoio, 25 punti di sutura e ancora sul ghiaccio, così come la partita dopo e quelle seguenti, già perché i record non si realizzano così semplicemente.

Esistono follie anche meno crude, come quella del poco conosciuto, Gilles Gratton, buon portiere che sosteneva di conoscere tutte le sue vite precedenti, raccontando spesso delle proprie gesta nel passato durante le interviste. In una di queste spiegò che molto probabilmente era diventato un portiere professionista a causa dei misfatti nelle sue vite passate: quel disco che gli tirano addosso in maniera così insistente è una specie di lapidazione. Suonava il pianoforte, ma non aveva mai preso lezione e spesso girava nudo dopo le sessioni di allenamento. Smise di giocare all’età di 24 anni, andò in cerca si dice della sua vera missione, quella di diventare un monaco tibetano. Le sue tracce, almeno quelle di questa vita terrena, si persero tra le mura di un vecchio castello abbandonato in Europa.

Negi anni la tecnologia dello sport ha esorcizzato quasi del tutto i rischi legati a questo ruolo, garantendo la sicurezza dei portieri (per ultima la recente introduzione del paracollo obbligatorio). Al pizzico di follia di chi decide di giocare tra i pali invece, non v’è ancora rimedio.

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Pubblicato il 12 Febbraio 2024
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