Riccardo di Angera che riporta in tavola gli ingredienti dei nostri avi
Dal pesce di lago (anche quello più difficile da lavorare) allo zafferano ritrovato. Ogni piatto di Riccardo Baranzini racconta una storia: "Ma non chiamatemi chef"
In continuo movimento dentro a una cucina minuscola e caldissima; appoggiato al bancone nell’ex convento di Santa Caterina, che lui e la Dany hanno trasformato in ristorante; appoggiato all’uscio che dà su via Greppi con sopra una nuvola di fumo e una sigaretta tra le dita; per le strade del centro, con un passo da gatto, negli orari zitti del paese, mentre arriva o se ne va. Quattro fotogrammi per descrivere la vita quotidiana di Riccardo Baranzini, il più angerese dei cuochi all’ombra della rocca. Il più angerese e il più atipico, a tal punto da sentirsi quasi a disagio: «Ero un cameriere e ora eccomi qua con più di vent’anni passati là dentro».
Con “là” si riferisce a una cucina di pochi metri quadri, dentro a un noto locale di Angera, il Nettare di Giuggiole, cuore antico di un paese che ha una storia di millenni, ma quasi non lo capisci perché i suoi abitanti le hanno sempre dato poca importanza. Con la pensione ormai vicina, Riccardo che oggi ha 65 anni, si ritrova a essere il veterano tra gli chef di una cittadina che, negli ultimi anni, è un continuo fermento di ristoranti che aprono, che chiudono e altri che riaprono. Già la parola chef lo mette in imbarazzo: «Sì perché oggi la gente vede gli chef in tivù, conosce i Cracco, i Canavacciuolo, ma sotto un’unica definizione ci sono loro, che sono i “Cristiano Ronaldo” della cucina, e poi ci sono anche io che sono soltanto un’onesta mezz’ala che gioca in serie C». Si considera davvero uno tra i tanti, l’umiltà è autentica, ma la sua vita e la sua idea di cucina hanno qualcosa di poetico: «Ho passato l’infanzia al Rungiùn, ho iniziato a lavorare in un ristorante per guadagnare qualche lira da spendere con gli amici o in vacanza, ho perso tanti treni e tanti aerei, in tanti anni, anche treni buoni. E la vita mi ha sempre riportato qui». Qui, nella sua Angera, a pochi passi dal Rungiùn appunto, che era un quartiere attraversato da una roggia, oggi interrata e viva solo nei ricordi.
Ha perso aerei, Baranzini, persino in aviazione, per dire con una battuta che da ragazzo sognava una carriera in aeronautica. Oggi la sua vita in cucina punta a traguardi quotidiani che lui considera piccoli: «Con il mio lavoro, offro con i sapori una vacanza di due o tre ore alle persone. Mi piace vedere la gente che sta bene qui, entra da me per passare una bella serata ed esce meglio di quando è venuta dentro». Quando arriva la mattina presto, lo vedi assonnato, quando se ne va la sera, ha lo sguardo stanco, ma dentro la sua cucina si accende, come dentro a un vortice, a spadellare come un giocoliere: «In cucina, lavorare da soli richiede impegno, concentrazione, anche fatica. E si gioca di squadra, con la Dany in sala».
Tutto cominciò durante un’estate del 1972: «Avevo 14 anni e un amico mi convinse ad andare con lui a lavorare, per una stagione, al ristorante che c’era una volta dentro la Rocca Borromeo. Devo tutto a Sandra e Federico Cebrelli, che mandavano avanti quella che allora era una trattoria molto popolare in paese e per i turisti. All’inizio spostavo bottiglie, niente più, poi non senza qualche ripensamento, ho cominciato a fare il cameriere fino a gestire quel ristorante». Giorno dopo giorno, un passo avanti: «Imparai un mestiere davvero, non facevo semplicemente il portapiatti. Ho lavorato anche diverse stagioni in giro, non solo ad Angera, facevo anche il servizio alla lampada, la lampada flambé, cucinavo le crepes suzette e persino le composte di frutta in sala».
Saper imparare e saper osservare gli hanno cambiato la vita: «Ho trascorso tre anni decisivi grazie a Enrico Peroni, uno chef vero, angerese, che prima di tornare in paese, fece molti anni a cucinare d’estate alla Villa d’Este di Cernobbio e d’inverno al Grand Hotel di Saint Moritz. Lui mi ha insegnato tutto, a cominciare dall’approccio a questo mestiere». Se non fosse stato un ragazzo sveglio, oggi non sarebbe un cuoco vero, seppur senza titoli, come lui stesso sottolinea con umiltà: «Peroni mi aveva avvisato: saper far da mangiare è soltanto un buon inizio. E io sto imparando ancora oggi, ci sono quattordicimila ricette regionali tutte da scoprire, una bella sfida. Il buon inizio ce l’ho avuto, poi il resto è un continuo imparare a organizzare, gestire, capire: se sono arrivato fino a qua è perché faccio un lavoro che mi piace. Se piace, stare in cucina pesa poco, altrimenti è come un coltello nella schiena».
L’esercito di chef televisivi, sempre in competizione, possono confondere le idee: «Eh sì, perché la gente s’illude che questo sia un mestiere tutto sommato semplice, ma non è così. Ma non mi va di criticare gli chef che hanno così successo. Meritato. Cracco, per esempio, può piacere oppure no, ma si è fatto un mazzo enorme per arrivare a essere quello che è. Quegli chef famosi in tivù, ma anche alcuni colleghi molto affermati qui sul lago, ragazzi preparati, fanno ricerca, un vero e proprio studio degli abbinamenti, rielaborano le tradizioni. Io faccio molto meno». Riccardo Baranzini non inventa, mette in cucina quello che è, ovvero un giovane degli anni Settanta, un po’ ribelle e un po’ nostalgico, cresciuto in riva al lago, a mangiare i piatti antichi cucinati dalle nonne, che erano abituate a darci dentro coi condimenti e i sapori: «La cucina semplice, di una volta. Oggi la gente la va a cercare».
Adattata ovviamente ai tempi attuali, pensata per persone con una digestione differente rispetto a quarant’anni fa. Le radici, il lago, Angera, la rocca, la trattoria della Sandra e del Federico, tutto finisce dentro la sua idea di cucina: «Indubbiamente. Qui viviamo in un territorio gastronomicamente limitato, c’è molto poco rispetto ad altre zone. E allora vado a cercare il prodotto della nostra terra da valorizzare: per fare un esempio, gli asparagi bianchi e verdi, che sono stati da poco introdotti sul territorio da un coltivatore angerese, entrano di diritto nei miei menù, così come lo zafferano recentemente riscoperto, dopo duecento anni, da un’azienda agricola di qua. In ogni caso, l’importante è scegliere bene la materia prima, poi io la propongo in semplicità, autentica. Non c’è bisogno di pasticciare molto, se scegli prodotti di qualità».
Non si vede artista, eppure lo capisci che si diverte, lo intuisci che gioca con quel che sente suo, radici e fantasia: «Oggi fa figo cucinare il sushi, ma io farei ridere, non sarei credibile. Allo stesso modo, per esempio è di gran moda il risotto alle fragole, ma non ve lo cucinerò mai, perché non lo sento mio». Il Basso Verbano è un lago di pesci difficili, roba da piatti poveri, ma è lì che Riccardo gioca in casa: «Il luccio, la carpa, la tinca sono belle sfide in cucina, soprattutto da proporre alla gente di oggi. Ma i riscontri sono buoni, la gente li apprezza, certo se pensati con attenzione: il luccio, per far capire, ha una carne bianca eccezionale, ma è pieno di spine. Va lavorato e magari proposto come ripieno da ravioli, per esempio». Le radici sono quelle, dentro al lago, ma anche nei ricettari di una volta: «Oggi è molto di moda la “tartare di manzo”, ma spesso è solo carne cruda condita in vari modi. Io ho scelto di rimanere fedele a una ricetta del 1927, il manzo alla tartara».
Ok, la storia, ma ogni tanto vien fuori la sua anima “rock” un po’ ribelle, come quando si inventò (e ancora lo fa) tra i dessert la crème brûlé al tabacco: «Io sono fumatore e un po’ per ribellione la proposi quando entrò in vigore il divieto di fumare nei locali. Piace ancora oggi, ogni tanto la ripropongo». Si guarda alle radici, ma c’è il presente che deve accettare le persone che cambiano: «E che hanno i loro problemi. Da quando ho una nipote con la celiachia, la mia pasta fresca è tutta senza glutine: la pasta all’uovo, intendo, nella quale la farina è solo il legante. Ma non lo scrivo nel menù perché la gente ha troppi pregiudizi, da me si mangia solo pasta senza glutine, ma la gente non lo sa. A meno che, chi soffre di celiachia me lo chieda esplicitamente». Non ha concorrenti, fa il tifo per i colleghi più giovani: «Ognuno ha la sua idea. Come la passione per le donne o per le squadre di calcio, anche la cucina è soggettiva, ognuno ha i suoi gusti e le sue fantasie. Io ho imparato a conoscere i miei limiti, propongo quello che mi piace e che sono in grado di fare. Da solo, con le mie mani».
Si spengono i fornelli a tarda sera, la penultima sigaretta è sull’uscio del ristorante: «Ma perché intervistare me?» e scuote il capo. Perché lui e non un altro? Come i sapori, anche le parole hanno bisogno di ingredienti sinceri, semplici, per poi disegnare storie che valgano una lettura. Come le luci e le ombre, che danno anima a un ritratto molto più del colore. L’ultima sigaretta è in solitudine, scendendo verso il lago, mentre torna a casa: dentro una nuvola di fumo, lo vedi che sta pensando, silenzioso come un gatto che si aggira tra le case di un paese che dorme. Sì, poteva scegliere l’aeronautica, ma è rimasto in paese a spadellare. Da fumo e pensieri vien fuori anche l’idea per quella salsa da abbinare a una carne o a un pesce: come un giocoliere, nella sua piccola cucina, l’indomani metterà in pentola un po’ di sé, un po’ di ricordi della nonna, un po’ della sua Angera e qualcosa di nuovo che, certamente, la notte gli svelerà. Come un segreto.
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