Anselmo, le bocce e la neve
Castelveccana, mitico paese abbarbicato fra le pendici dell’aspra altura sulla quale si ergeva nel medioevo una roccaforte, dalla quale derivò poi l’appellativo di rocca di Caldè, e i primi contrafforti del Cuvignone, massiccio monte disteso fra Laveno e Luino, era anche la patria di un suo concittadino, non famoso, non di spicco, ma allocato in quel di Castello, frazione del medesimo comune, il cui nome era appunto derivato dalla fusione fra le frazioni di Castello e di Veccana.
In una delle case rurali antiche di secoli, al primo piano, quasi di fronte alla nicchia votiva, a pochi passi dalla ferrovia che sbuca dalla lunga galleria che collega Porto Valtravaglia a Caldè, abita l’Anselmo, noto per la sua modestia non solo nel vestire, ma soprattutto nell’atteggiamento, schivo, timoroso, conigliesco nell’intento di evitare con cura qualsiasi approccio meno che gentile, disponibile, sottomesso al mondo intravisto come giungla ostile, irta di pericoli, di trabocchetti creati ad arte dalla sorte per rendergli il cammino come minimo periglioso.
Impiegato in una piccola ditta di materiale elettrico con la mansione di magazziniere, svolta quotidianamente con scrupolo, apprezzato seppure non considerato se non come una scaffalatura sulla quale sistema il materiale e dalla quale lo preleva con precisione e pignoleria tale da giustificare lo stipendio percepito che gli consente una vita modesta, ma dignitosa.
“Marellot” come gli dicono con un pizzico di perfidia i colleghi e i non numerosi amici per la sua superficiale attenzione per l’altro sesso, senza passioni particolari neppure per una squadra di calcio, la Juve magari come la gran parte dei suoi coetanei, eccetto una: il gioco delle bocce. Appena poteva si precipitava al bocciodromo di Bedero, preferibilmente, ma anche a quello di Brenta oppure a Reno per cimentarsi sui campi e la borsa con le bocce, nel baule della sua Panda blu scuro, sempre inseparabile compagna.
Naturalmente solo nei fine settimana poteva accarezzare il piacere di sfoderare le bocce bianco- rosse – amava visceralmente il colore rosso che, diceva, era il colore della vita – e aspettava paziente che lo invitassero a giocare. Come lo invitassero? Non era scontato che entrasse in una delle terne che si sfidavano per ore nei pomeriggi d’interminabili sfide? Affatto.
Anselmo era scarso, veramente, completamente, senza appello: era intollerabilmente negato per le bocce. Faceva l’accostatore e, se andava bene, riusciva a mettere una boccia su dieci in prossimità del pallino, le altre nove ad almeno un metro più avanti, più indietro, più di fianco, destro o sinistro non c’erano preferenze, un disastro, insomma.
Quindi l’invito scattava solo se mancava il sesto giocatore, per cui pur di occupare il campo e giocare andava bene “ànca quèll mìnga bòn de giugà” dell’Anselmo. Ma lui mite, remissivo, accettava tutto, le prese in giro, gli sguardi di commiserazione, i gesti d’insofferenza per gli sbagli, pur di giocare, pur di stare insieme, pur di poter vedere le sue bianco- rosse rotolare per il campo. E alla sera, ma anche quando rimaneva ai bordi a guardare gli altri giocare, lasciava scivolare la mente nel sogno a occhi aperti, immaginava che magicamente le sue bianco-rosse fossero sempre vicinissime al boccino, quasi lo abbracciassero tanto n’erano accanto, e riusciva a sorridere, viveva concretamente la vicenda sportiva e ne provava un grande piacere, fisico addirittura: gli sembrava di non aver mai provato un senso di benessere così completo.
Ma il 2020 aveva tramato contro di lui, era venuto il virus, i bocciodromi chiusi per mesi e Bedero non faceva eccezione: serrato, neppure gli allenamenti erano consentiti e Anselmo veniva preso dalla disperazione. Se non poteva allenarsi, come avrebbe potuto sperare di migliorare le sue prestazioni? Era oltraggiosa una cospirazione di questo tipo avverso il suo – unico, lo dovevano sapere che era unico – amore per uno sport, non riusciva a sopportarlo. Poi d’estate qualche timida ripresa, ma a novembre un’altra spaventosa chiusura e lui privato per settimane del suo bene in una solitudine sempre più cercata, non voluta, ove anche il sogno era precluso.
“E adesso che è arrivato il Natale – pensava triste – sono stato ancora più solo, e oggi ci voleva pure la neve a rendere desolato il mio paesaggio: guarda quanto ne ha messa giù! Certo che anche se non ci fossero ‘ste disgraziate di chiusure non sarebbe stato possibile pensare di arrivare al bocciodromo. E poi chi altri avrebbe potuto avventurarsi per strada per giocare alle bocce. Mi metto in poltrona, non accendo la TV, ne ho piene le scatole di farmi rimbambire con i contagiati, i morti, gli ospedali, voglio stare in pace e basta”.
Socchiude gli occhi, appena un poco, non guarda da nessuna parte di preciso, vorrebbe che gli comparissero le sue bocce bianco-rosse vicino al pallino, ma la neve che scende e si accumula sulla strada, sulla ringhiera del balcone, sugli alberi, sui prati, ovunque, esercita il suo potere ipnotico; i fiocchi s’inseguono, turbinano e le sue bocce bianco-rosse non compaiono. Lo strato bianco è molto alto, le bocce hanno un colore diverso – marroni? Screziate di giallo? – non riesce a comprendere, ma sono lì, «In sei addirittura, ma come è possibile, si gioca con due, con quattro, quando mai con sei?» vicinissime al pallino giallo – «Che strano, perché giallo? Non ricordo di averlo visto di quel colore» praticamente ammucchiate in mezzo alla neve, così candida non si ricordava d’averla vista nel passato, ma è felice, di una felicità superiore al suo sogno abituale a occhi aperti, si sente bene “Che belle le mie bocce screziate, che belle le mie sei bocce screziate!” esclama in un eccesso di beatitudine mai provato prima d’ora.
«Signor Anselmo, signor Anselmo, è diventato sordo? Guardi che è arrivata la cena che aveva ordinato: il fattorino del ristorante se ne va se non apre!» tuona invano la vicina di casa.
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